I medici con una specializzazione multidisciplinare sono pochi, lo stigma è ancora alto, la sensibilità stenta a decollare e le famiglie sono senza punti di riferimento. Ma per Maria Letizia Petroni, medico internista della clinica accreditata “Sol et salus” di Torre Pedrera, il problema dell’obesità nei bambini disabili è diventato oggetto di una battaglia che, davanti a sé, ha protocolli che rimangono lettera morte e autorità sanitarie che sottovalutano l’argomento. Ma lei, che si occupa da anni di nutrizione clinica e riabilitazione in ambito nutrizionale, se non è emergenza poco ci manca: “Il 30% dei bambini con disabilità motoria sono obesi. Ma l’obesità riguarda anche altre forme di disabilità, dalla sindrome di Down alle paralisi cerebrali, passando per quelle psichiche”.
Se, da un lato, le richieste delle famiglie sono sempre più frequenti, resta – anche da parte de genitori – una scarsa attenzione all’argomento obesità: “Eppure, ancora di più che per le persone cosiddette ‘normodotate’, in questi casi l’obesità peggiora condizioni già gravi. Penso, per esempio, alla predisposizione ai problemi cardiaci per i bambini con trisomia 21. Un peso eccessivo affatica il cuore, anticipa diabete e ipertensione”. Difficile, d’altro canto, uscire dal circolo vizioso, soprattutto se il cibo viene vissuto come “compensatorio” rispetto agli altri disturbi: “Eppure, interrompere quel ciclo può avere effetti benefici, per il bambino, sul piano dell’autostima e quindi anche della socializzazione e integrazione con gli altri“.
Chiaro, il percorso è difficile e prevede l’uso di alcune strategie: “L’approccio migliore comprende il coinvolgimento della famiglia: spesso i genitori, per seguire i figli, trascurano la loro alimentazione. Rieducarli è il primo passo da fare. Senza imporre troppi limiti, certo: il bambino stesso deve essere rispettato nelle scelte, le diete ipocaloriche devono comunque essere gratificanti e gustose. Al tempo stesso, tutto va bilanciato in modo che la massa magra non si indebolisca, a discapito di una già in parte compromessa mobilità”. Bisogna puntare, al contempo, su sport e gioco: “Il disabile, nell’immaginario, è sedentario. Invece, in molti casi, non è così: alcuni possono spingere la carrozzina con le braccia, altri utilizzare ausili per spostarsi, lanciare una palla, fare sport paralimpici. Vanno solo stimolati e motivati in questo senso, studiando caso per caso l’approccio migliore”.
Argomenti di cui la stessa letteratura scientifica si occupa, secondo Petroni, troppo poco: “Negli Stati Uniti ci sono studi, da noi no. del resto, basta guardare al piano per il trattamento e la prevenzione dell’obesità infantile dell’Emilia-Romagna, gestito per lo più in ambito pediatrico e ambulatoriale, dove è di difficile applicazione. Non si riesce a trattare efficacemente il bambino non disabile, figuriamoci quello disabile”.
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