L’obiettivo è raccogliere 5mila firme in ogni regione italiana. C’è anche l’Emilia-Romagna nella mobilitazione per il riconoscimento della fibromialgia, una malattia poco conosciuta ma altamente invalidante che qualche giorno fa Romagna Mamma ha raccontato grazie alla testimonianza della 32enne ravennate Deborah Tritto. La mobilitazione è partita grazie alla pagina Facebook “Comitato fibromialgici uniti” alla quale fanno riferimento i vari comitati regionali. Da Santarcangelo di Romagna è Catia Bugli, 54enne, a seguire l’operazione che mira, prima di tutto, a fare in modo che a chi soffre di fibromialgia venga riconosciuta l’invalidità o comunque l’esenzione rispetto a visite mediche e farmaci: “Noi malati spendiamo tutti i soldi che abbiamo in terapie. Chi sceglie le vie non ufficiali, come me che ho deciso di non imbottirmi di psicofarmaci e cortisone, non c’è nessuna forma di aiuto economico”.

mal di schiena, dolore, donna Per raggiungere l’obiettivo, la carne al fuoco è molta. Lo scorso 12 maggio, a Palermo, è stato organizzato un flash-mob. In ottobre, in tutta Italia, si dovrebbe tenere un mega evento su scala nazionale per rendere la malattia, da invisibile, a visibile. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, è stata anche lanciata la campagna “Mettiamoci la faccia”, dove i malati si sono fotografati, indicando anche da quanto tempo soffrono di fibromialgia: “Io ho avuto la diagnosi tre anni fa ma per molto tempo i reumatologi mi hanno riso in faccia. C’è poca ricerca, i medici non conoscono la patologia. E continuano a pensare che sia un disturbo psicosomatico”.

Intanto, tra un paio di mesi, si conteranno in tutte le regioni le firme raccolte nell’ambito della petizione popolare “Mettiamoci la firma”: “La strada è lunga, non solo per le mete che ci siamo prefissati ma anche perché le persone stanno male, alcune non escono neanche di casa”.

Lo conferma Barbara Suzzi, riminese residente a Bologna, che dopo l’auto-diagnosi si è sentita confermare tre anni fa dai medici di essere affetta da fibromialgia : “Vogliamo una sorta di carta d’identità che ci riconosca e che faccia muovere la ricerca. Ma anche che ci allontani da una serie di guru e sciamani che paventano competenze sulle nostre sofferenze, alimentando un mercato disumano. Abbiamo bisogno di avere peso e vogliamo che la fibromialgia abbia finalmente una casa”.