Podista nota il “nostro” papà in handbike: “Mandategli la mia lettera”

Umberto e Andrea Caleste domenica scorsa a Trino Vercellese
Umberto e Andrea Caleste domenica scorsa a Trino Vercellese

Succede di raccontare una storia, molto toccante. E succede, poi, di dimenticarsela. Perché ce n’è un’altra, subito dopo, da regalare a chi legge. Ma quel papà in carrozzina che ti aveva omaggiato dei suoi dolori e delle sue gioie, una mattina, aprendo la mail, ti torna d’improvviso alla mente. Perché qualcuno lo ha notato e ti chiede, gentilmente, notizie di lui. Non solo: per lui ha scritto un racconto, una lettera, che vieni incaricata di recapitargli. E nasce un’altra storia, quella di un’emozione comune, di un incontro che forse, se quella storia non l’avessi scritta, non sarebbe nato.

Il protagonista è Umberto Pascoli, 49 anni, quasi la metà dei quali passati in sedia a rotelle in seguito a un incidente. A Marina Romea, dove vive, ha iniziato diverso tempo fa ad appassionarsi all’hand-bike. E in questa avventura, ha coinvolto da subito sua figlia Andrea Celeste, sei anni. Una bambina abituata ad essere caricata sul carretto attaccato alla bici quando papà gareggia.

L’altro protagonista si chiama Cristian Molo. Domenica scorsa, ha incrociato per la prima volta Umberto e sua figlia negli ultimi chilometri della maratona di Trino Vercellese. Un incontro veloce, senza parole, che però lo ha colpito profondamente. E così, una volta tornato a casa, Cristian si è messo al computer per mettere nero su bianco le sensazioni che ha provato nel vedere la forza di Umberto e l’allegria di Andrea Celeste.

Attraverso il sito di Romagnamamma, che nel maggio dell’anno scorso aveva scritto la storia di Umberto, Cristian ha trovato il modo di contattarlo. Ci ha chiesto, in realtà, un gesto semplice. Fargli avere questa lettera, che pubblichiamo integrale, come entrambi ci hanno concesso di fare.

Poi può anche capitarti un giorno in cui ti alzi presto con un unico pensiero, la gara che stai andando a correre, fai colazione, ficchi in borsa la maglia e le scarpe e due sogni, non soffrire troppo e fare il personale, accendi l’auto che fa un freddo barbino, un vecchio berretto a tenerti al caldo la testa ed il tuo migliore amico a scaldarti il cuore, che sentirsi soli è brutto, prima di una maratona peggio ancora.

E dopo qualche ora, mentre sei lì a contare quanto ancora ti manca al traguardo e speri che arrivi prima, anche solo di cento metri, perché fai fatica ad alzare ogni passo e l’unico pensiero che hai è doloroso, ecco che allora, all’improvviso, la vita ti regala una lezione di umanità, così intensa che tutto il resto sparisce, così vera che ti trovi a piangere dopo il traguardo, e non perché hai fatto il personale.

Cristian Miolo nella gara di Trino Vercellese in cui ha incontrato Umberto Pascoli e sua figlia
Cristian Miolo nella gara di Trino Vercellese in cui ha incontrato Umberto Pascoli e sua figlia

Succede tutto al km36. La maratona di Trino, che da troppi km è solo un nastro nero e piatto in mezzo ad una pianura che sembra non finire mai, si imbizzarrisce e decide di regalarti una salita. Va bene, dico io, ed inizio ad accorciare il passo, sveltendolo per quanto posso, ripetendomi che è l’ultima fatica, che una volta in cima mancheranno gli ultimi cinque, che a pensarli adesso sembrano tanti, ma sono solo duemila passi, volendo li puoi contare tutti, quindi abbassa il capo e spingi che quel podista davanti a te se ci credi lo pigli ancora.

Mi dico. E alla mia sinistra sono affiancato da un hand-biker. Non lo vedo, perché la sua bici ha una cappottina a riparalo. E non viaggia solo, perché nella capottina c’è una bimba, forse la figlioletta, avrà tre anni. La salita è breve e nemmeno troppo dura, ma dopo trentasei km le sue braccia fanno male come e più delle mie gambe. Infatti rallenta, arranca, così viaggiamo affiancati per qualche metro. E mi accorgo che, mentre il suo papà saliva – ed eravamo così vicini che sentivo la sua fatica, che potevo immaginare il suo viso contratto dallo sforzo – la piccola dietro, felice, cantava. Cantava come solo i bimbi piccoli fanno, come se fosse sempre un giorno di sole, basta essere col papà ed il mondo è un posto felice.

Non è durato tanto. La salita ha spianato, il papà ha cambiato marcia lasciandomi indietro, continuo a sentire per qualche secondo quella vocina allegra cantare, poi è sempre più lontana e non la sento più. La strada è quella di prima ma adesso è tutto diverso. Il tempo da battere. La fatica. Quel podista che sto cercando di raggiungere. Tutto ha perso di colpo importanza. La lezione è stata breve e non c’è stato bisogno di parole. Anzi, no, ci sono anche le parole. Sono di una bella canzone di Lorenzo, si intitola Pieno di Vita e ad un certo punto dice 

“E non è scritto da nessuna parte che io e te/ Avremo avuto vita regolare / Non è mica vero che tristezza ed allegria / Son distribuite in modo uguale”.

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Andrea Celeste Pascoli

Ho ancora negli occhi quel papà e quella bambina, ed improvvisamente quelle parole assumono un significato, diventano concrete davanti ai miei occhi, come se avessi corso tutti quei km solo per arrivare in quel momento, in quella salita, a incrociare la mia vita per un istante con quel papà e la sua bambina. Per arrivare a capire che ci può essere una infinita gioia anche in una vita coi cerotti. Che questo giorno è pieno di vita, che per un padre portarsi sulle spalle la figlia che canta non è peso ma ricchezza che dà senso a tutto, che devo essere felice di poter correre le maratone, ma che non è poi così importante. “Tutti quanti presi da qualcosa di importante / Che non è importante per niente”. Grande, Lorenzo.

Non saprei nemmeno riconoscere quel papà e la sua bambina. Forse è per questo che mi sarà facile portarli nel cuore per molto tempo. Non sarà l’unico ricordo della giornata. Ora sto contando i passi e un poco me la prendo con me stesso, perché vorrei andare più veloce ma non ci riesco, perché sono all’ultimo km ma l’arco dell’arrivo tarda ad entrare nel mio orizzonte ottico. Così mi dico conta ancora fino a cento e poi, solo poi, potrai alzare di nuovo il capo. Arrivo a novanta e sento uno che grida, e grida forte perché sarà trecento metri avanti a me: VAIIIIICRIIIIII!!!!! E’ Gaetano, l’amico che chiunque vorrebbe, che mi ha aspettato al traguardo, guardando il cronometro ogni cinque secondi negli ultimi minuti ed ogni volta masticando tra sé MA PERCHE’ NON ARRIVA. Vedermi lì in fondo, per lui, è stata la fine del suo soffrire, in qualche modo, lui stava correndo con me. Con lui c’è Silvio, anche lui padre, podista, amico. Ci abbracciamo subito dopo il traguardo, e lo stringo forte, perché sentirsi accolti da chi ti vuole bene dopo una dura giornata è meraviglioso. Dopo una maratona, di più”.

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Commenti:

  1. Grazie Silvia! Senza il tuo aiuto non avrei potuto condividere con Umberto ed Andrea Celeste la cosa grande che ho provato a descrivere. Grazie a te ho appena parlato al telefono con Umberto, che mi spiegava che, quando li ho incontrati, Andrea stava cantando per spingere suo papà a superare la salita, lo stava motivando a modo suo…

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