(foto d'archivio)
(foto d’archivio)

Colpisce un maschio ogni 4mila nati. Federico Lenisa, educatore e counsellor riminese, ha dovuto imparare sulla propria pelle che cos’è la sindrome della x fragile, la malattia genetica rara da cui è affetto Luca (nome di fantasia), un ragazzo di trent’anni di Viserba che segue ormai da un decennio. Prima per una cooperativa di Villa Verucchio e oggi in forma privata. Federico, nella vita, è anche papà di due figli. E ha imparato, strada facendo, che il muro che separa la propria vita lavorativa da quella personale non è per forza invalicabile: perché si può essere la stessa persona quando sei a prendere un gelato con Luca e quando sei a passeggio con i tuoi bambini.
Federico, ci si abitua, in un certo senso, ad avere a che fare con la disabilità?
“Tempo fa mi portavo a casa tutto, ero triste, piangevo. Poi, anche facendo molta formazione, ho imparato che per dare il meglio di me sul lavoro, in questo caso con Luca, bisogna cercare di non sovraccaricarsi troppo emotivamente, il che non significa essere cinici o impassibili, tutt’altro. Significa, al contrario, essere più vicini alla persona di cui ti stai occupando”.
Che tipo è Luca?
“Luca, vista la sua sindrome, ha un ritardo mentale e problemi muscolari. Quando va in sovraeccitazione, per esempio se è molto allegro, muove velocemente le mani, le sfrega sul viso, fa dei balzi verso l’alto anche se siamo in auto. Ma riusciamo anche a scherzarci sopra. Io sono convinto che Luca sia in parte consapevole del problema che ha. Il fatto che parli aiuta sebbene viva su due binari, da un lato la realtà e dell’altro un mondo di fantasia. Fatica a tenere il contatto visivo e non sopporta molto quello tattile. Ma se lo offendi si rattrista: riesce, in generale, ad esprimere quello che prova”.
Un educatore, visto che le forme di disabilità sono le più disparate, non può essere specializzato in tutto. Che cosa le insegna l’esperienza con Luca?
“La creatività e l’umiltà. Luca ha una sensibilità pazzesca. La tendenza, quando hai di fronte una persona con handicap, è quella di considerarla un po’ pazza e fuori di testa. Invece, in alcune cose che dice o che fa, Luca dimostra genio e memoria. Anche quando passa un po’ di tempo tra un nostro incontro e l’altro, Luca riesce sempre a riconoscermi e ricordarsi alcune battute che siamo soliti fare insieme, i nostri modi di dire e le forme dialettali che usiamo per divertirci un po’, dalla parlata milanese a quella napoletana”.
Fin dove si può spingere il percorso verso l’autonomia di Luca?
“Di progressi ne ha fatti molti. Sua madre mi raccontava che da bambino non sapeva allacciarsi le scarpe. Oggi fa la doccia e si veste da solo. Io sono convinto che potrebbe anche riuscire a leggere e scrivere i numeri, cosa che al momento non fa. Non forzo mai la mano: serve sempre attenzione e molto lavoro ma anche rispetto per i tempi della persona che segui”.
Che rapporto si instaura, invece, con la famiglia del proprio assistito?
“Stretto ma non per questo facile. A volte i genitori sono molto duri con i figli, come se fossero normodotati e potessero pretendere miglioramenti continui. Altre volte, come nel caso di Luca, sono molto apprensivi. Questo mi fa dire che è necessario anche per le famiglie un percorso terapeutico di accettazione: bisogna prendere atto del proprio dolore e lavorarci sopra. Altrimenti si crea una spirale di negatività che contagia tutti e che mette i bastoni tra le ruote al ragazzo disabile nella sua strada verso una sempre maggiore autonomia”.