“Ora andiamo sull’Isola che non c’è”: in sala operatoria con le bolle insieme ai clown di corsia

“Forza Samuel, ora andiamo sull’Isola che non c’è”. Reparto di pediatria dell’ospedale di Ravenna, ore 9. Giambi e Sberleffa, codini legati con elastici colorati, tracce di trucco sulle guance e ciabattone variopinte, sono pronti ad accompagnare il piccolo paziente, tre anni appena, in sala operatoria. Il camice diventa un “mantello del principe”, la pomata anestetica è la “cremina magica”. Sul letto a ruote che allontana il bambino dalla sua stanza, i due clown posizionano un volante giocattolo: lui fa finta di guidare e ride. Poi fa le bolle all’infermiera.

Giambi è detto anche Doctor Clown: dietro c’è Valeria Vallesani, una delle volontarie di Sorrisi Contagiosi, l’associazione interna alla Croce Rossa che sdrammatizza la paura, elargisce allegria e ammorbidisce la tensione. Dei bambini, in primis, ma anche di mamme e papà, che quando vedono i loro bambini varcare la soglia della sala operatoria, spesso crollano: “Quando vanno in crisi, restiamo con i genitori, che spesso si aprono, raccontandoci i loro problemi e la loro vita. Senza che noi chiediamo loro niente”.

Giambi e Sberleffa di Sorrisi Contagiosi

I volontari sono una trentina, dai 25 ai 65 anni circa: “La maggior parte sono donne, anche se credo che gli uomini abbiano una marcia in più. Fino a qualche tempo fa avevamo un clown che mimava e basta, senza parlare. E i bambini lo adoravano. Era bravissimo”. Del resto il famoso Patch Adams al quale i pagliacci della clownterapia del mondo si ispirano era un uomo: “L’ho conosciuto nelle Marche, durante un suo laboratorio. Trasmette un’energia e una positività incredibili”.

Al Santa Maria delle Croci, Sorrisi Contagiosi segue sia il percorso chirurgico che quello della risonanza magnetica. Un esame, quest’ultimo, per nulla facile per un bambino: “A volte riusciamo ad evitare l’anestesia. Il bambino riesce a vederci attraverso un casco che ha in testa e resta immobile per quella mezzora che serve”.
Fare il clown di corsia non è qualcosa che s’improvvisa: “Tutti noi abbiamo il nostro clown interiore ma seguiamo comunque un corso con dei consulenti. Facciamo degli esercizi dedicati soprattutto al contatto con l’altro, mirati a trasmettere e ricevere fiducia”. A breve partirà un corso per formare nuovi clown. Anche i medici più restii si sono resi conto della loro importanza: “All’inizio, nel 2006, non è stato facile farci accettare. Ci vedevano come persone che invadevano un po’ il campo. Ora è diverso. Il camice per la sala operatoria, per esempio, lo fanno mettere a noi”. Capita anche che siano gli stessi dottori a cercare i clown. E’ il caso di Patrizia Cenni del servizio di risonanza: “Ci ha voluti a tutti i costi perché non ci considera solo un accessorio”.

Intanto un bimbo è uscito dalla sala operatoria. E’ già sveglio, sotto le coperte, e ha il ciuccio in bocca. Si avvicinano Giambi e Sberleffa che, con le miracolose bolle, lo fanno smettere di piangere.

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