Gambe lunghissime, seni siliconati, chiome chimiche. E poi bebè formato angioletto, con capelli biondi e occhi azzurri, ovviamente di pelle bianca. Ma anche uomini con fisici statuari. La pubblicità continua a proporci canoni estetici irraggiungibili, che rafforzano gli stereotipi e comunicano messaggi razzisti, sessisti e classisti. Questo emerge dalla ricerca di Laura Corradi “Specchio delle sue brame. Analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo”. L’autrice, docente di Studi di Genere all’Università della Calabria, sarà domani alle 16 alla sala D’Attorre di Ravenna (via Ponte Marino, 2), ospite dell’associazione Femminile Maschile Plurale.
Professoressa, la sua ricerca quanti anni di pubblicità prende in esame?
“Ben dieci. Quando Lorella Zanardo è uscita con il famoso video ‘Il corpo delle donne’ ha sdoganato il tema, come se avesse tolto un tabù. Prima non era facile parlare di questi argomenti, venivamo accusate di essere moraliste. Il suo lavoro, così efficace, ci ha dato la spinta”.
Che cosa avete studiato, per l’esattezza?
“Abbiamo incrociato il genere con la classe sociale, la razza, l’età e l’orientamento sessuale. Abbiamo raccolto migliaia di immagini e le abbiamo sottoposte ad un’analisi socio-politica. Non solo: abbiamo anche applicato la semiotica femminista, cioè una critica femminista dei messaggi che ci vengono imposti dai media”.
Con quali risultati?
“Esiste innanzitutto una dittatura della bellezza molto stereotipata per cui un unico modello di figura femminile è stato assunto da un’oligarchia di pubblicitari del settore cosmetico, profumi e moda come canone di perfezione al quale uniformarsi – anche col bisturi”.
Oltre che a sbatterci in faccia una finta perfezione estetica, la pubblicità che cosa ci impone?
“La pubblicità è classista, dal detersivo alla scatoletta di tonno. Le case sono bellissime, non mancano i vassoi d’argento. Per fare asciugare il bucato ci sono giardini meravigliosi, non certo lo stendipanni incastrato nella vasca da bagno. La pubblicità è anche razzista: il corpo della donna di colore è usato per comunicare una sottomissione o come metafora del cibo – una donna da divorare. La pubblicità è anche ‘ageist’, cioè discrimina chi non è più giovane: alcuni hanno scoperto solo di recente che la nonna può avere i capelli bianchi e che ci sono anche bimbe di colore. Ma il modello imperante resta quello che vede la donna matura come figura marginale o da ridicolizzare. Infine, la pubblicità è eterosessista: si presume che le famiglie siano tutte eterosessuali. Se si mostra una coppia lesbica, le due donne non sono certo al supermercato col carrello della spesa ma interagiscono in maniera sensuale per lo sguardo maschile”.
Questa tendenza non riguarda, in parte, anche gli uomini?
“Solo in misura minoritaria. L’uomo nella pubblicità è sempre più scolpito, ipercurato e con la mascella virile. Ma i presentatori possono ancora permettersi di essere grassi, bassi e spelacchiati. Alle donne questo non è concesso. Accanto a maschi più o meno ‘normali’, ci sono ancora veline iper-reali. Se la donna in televisione non è perfetta secondo il gusto dominante viene accusata di essere sciatta, arretrata e demodé”.
E le mamme, come vengono rappresentate?
“C’è un utilizzo sproporzionato della donna incinta, in due modi. Se la donna non viene erotizzata, ripresa da sotto, con sguardi ammiccanti e pose sensuali, allora è la donna incinta ad essere usata anche per pubblicità di prodotti che non riguardano prodotti per mamme e bambini: questa idea del pancione, di tenerezza, viene sfruttata per assicurazioni, macchine e biscotti. Continua, insomma, quel fastidioso stereotipo degli anni Settanta per cui si è puttane o Madonne – mai solo donne”.
Anche i bambini ricadono quindi in questo livellamento?
“Certo. Si assiste ad una erotizzazione dell’infanzia dove le bambine a otto anni hanno costumi da bagno col push-up e a dodici sfilano a Milano in lingerie. Sui cataloghi stanno sedute con le gambe accavallate, hanno il mascara, il rossetto e la spallina del vestito che cade. Anche il bebè è rappresentato in forme classiste e razziste, sempre bianco, biondo e vestito firmato. Il corpo dell’adolescente, invece, è erotizzato come infantile ed anoressico – l’innocenza della pubertà diventa un prodotto da consumare – e questo influenza fortemente le ragazzine e i loro comportamenti alimentari: se diciamo alle giovani ‘più sei magra più sei bella’, diventiamo complici. Tutto questo è irresponsabile, preoccupante, pericoloso. E molte pubblicità istigano alla pedofilia”.
Ce ne rendiamo conto?
“No, di solito assorbiamo in maniera passiva. Molti messaggi rafforzano gli stereotipi di genere e ci dicono che le femmine si vendono per poco, fin da piccole – il che danneggia la loro autostima”.
Come possiamo difendere noi e i nostri figli da questa pressione?
“Denunciando tramite i vari siti tra cui quello dell’Udi le immagini inappropriate ma anche segnalando quelle appropriate, per esempio tramite il progetto Immagini Amiche. L’associazione Femminile Reale ha affisso sugli autobus di Trieste, al posto di seni e sederi, alcune foto belle di donne che restituiscono dignità al genere. E poi contro le pubblicità offensive si può ricorrere al boicottaggio, chiedendo ad un’azienda di non continuare con una certa pubblicità ed organizzando una campagna dissuasiva, come si fa in America. Ma tutte, anche a livello individuale, possiamo ribellarci alla dittatura delle pubblicità: muniamoci di pennarello rosa e scriviamo quello che pensiamo sulle immagini che non ci piacciono. Sarà la nostra guerriglia semiotica. Pacifica ed incisiva”.
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