Tutto è bene quel che finisce bene. Ma Gabriele De Luca, un’esperienza come quella vissuta tra giovedì e venerdì scorsi, non la ripeterebbe più. Un conto è stato assistere ad un parto da dietro le spalle della moglie, per la nascita della loro prima figlia, con la macchina fotografica e la tranquillità di essere nelle mani dei medici. Un altro conto è essersi trovato a gestirlo da sé, un parto. E’ l’una di notte quando la moglie Roberta Di Ponzio, al nono mese di gravidanza, si alza per andare in bagno. Greta, la loro bambina, sta dormendo in camera sua. Roberta dopo un po’ torna a letto ma presto i dolori, più simili a coliche intestinali che a contrazioni da parto, si ripresentano. Roberta sente come una forte botta alla pancia e sveglia il marito perché stia sul chi va là: “Io torno in bagno, se ho bisogno ti chiamo”. Quando esce dal bagno Roberta capisce che forse è il caso di andare all’ospedale di Ravenna, a poca distanza dove la coppia pugliese vive da anni.
Ma non fa in tempo a prepararsi: “Io partorisco qui, in ospedale mica ci arrivo”. Gabriele chiama il 118, corre a prendere un asciugamano e quando torna in salotto, dove Roberta si è accasciata sul divano per spingere e la suocera per un attimo sviene, la testa della piccola Diana è già fuori. Sarà proprio la suocera, qualche minuto dopo essersi ripresa, a prendere al volo la neonata e ad appoggiarla sul seno di Roberta. Ma sono tre secondi lunghi una vita: “Diana non ha pianto subito e mi sono spaventato, quei pochi attimi mi sono parsi un’eternità. Fortuna ho mantenuto il sangue freddo”, racconta il marito. E i nervi saldi, Gabriele, li ha dovuti tenere anche per tranquillizzare Greta, che nel frattempo si era svegliata ma che è stata tenuta all’oscuro di quello che stava succedendo nella stanza di là. E che con una favola e qualche coccole ha ripreso a dormire.
Dopo quei tre secondi ecco il primo vagito di Diana, ancora attaccata alla mamma attraverso il cordone ombelicale. Gabriele corre ad aprire la porta al personale del 118, che subito interviene per aspirare il nasino di Diana dal muco e carica mamma e bimba in ambulanza, dove viene tagliato il cordone ombelicale e dove la piccola intraprende finalmente il suo fragoroso pianto.
“In quei momenti non hai il tempo di pensare a nulla, io sentivo solo il bisogno di spingere – racconta Roberta che è tornata a casa domenica dopo i due giorni canonici di ricovero – e anche se mio marito mi invitava ad aspettare l’ambulanza, non riuscivo a trattenere l’esigenza di fare uscire Diana”. Roberta, a distanza di cinque giorni da un parto che mai avrebbe immaginato, è consapevole di essere stata molto fortunata: “Se ne sentono di tutti i colori, dal cordone attorcigliato intorno al collo in poi. Per fortuna a noi è andato tutto liscio. Se ripenso ai dolori di quella notte, davvero non riesco ad equipararli a doglie. Eppure lo erano”. Quando Gabriele è arrivato all’ospedale con la cartellina della gravidanza sotto braccio, anticipando l’ambulanza, ha trovato una schiera di medici e infermieri: “Mi guardavano come se fossi stato l’ostetrica. Chissà, magari mi daranno la laurea ad honorem”.
Greta si è svegliata il venerdì mattina, tranquilla: “Nel frattempo avevo cancellato ogni traccia dal salotto – racconta il papà – così le ho raccontato che la sorellina era nata in ospedale. Ed è lì che siamo andati a trovare Roberta e Diana”.
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Complimenti a questa mamma e a tutta la famiglia! La signora ha potuto sperimentare un bellissimo ed indisturbato riflesso di eiezione del feto, e una nascita davvero spontanea e naturale, è meraviglioso. Spiace apprendere che l’evento felice sia stato vissuto con tale angoscia, che mi sembra del tutto immotivata, e che un possibile attaccamento tra mamma e bambino nell’intimità della propria casa sia stato barattato con un ricovero ospedaliero del quale non finisco di chiedermi il motivo. E perchè la bugia alla sorellina? Quanto avrebbe gioito nel trovare la piccola in casa al suo risveglio, e che magnifico bagaglio quest’esperienza le avrebbe lasciato nel suo futuro di donna… La fretta di “cancellare le tracce” manco si fosse consumato un truculento delitto, il terrore di aver corso un pericolo di vita, sono segni di decenni di medicalizzazione del parto e della perdita della fiducia nelle capacità innate di donne e bambini. Auguri.
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