«Una madre resta un po’ a casa anche quando è altrove». Paola Scaccabarozzi, giornalista, anche se è dall’altra parte del mondo sa esattamente cosa sta succedendo ai suoi figli. Ciò non le ha impedito, in questi anni, di prendersi i suoi tempi e i suoi spazi per partire senza di loro e senza il marito. Un’esperienza che ben racconta nel libro «Ragazzi, la mamma parte! Viaggiare da sola con la famiglia a casa» pubblicato da Giraldi editore.
Paola, che cosa succede quando si chiude la porta?
«Non lo si fa mai a cuor leggero, anche se i miei figli hanno ormai 18 e 15 anni. Il distacco avviene poco a poco, durante il percorso, mentre ci si allontana. Quando arrivo a destinazione sento meno il peso, anche se ho sempre due telefoni con me, per essere reperibile a ogni ora. Un vero “lasciarsi la famiglia alle spalle” non lo si sperimenta, a mio avviso, mai».
Il tema del libro, stereotipi sulla maternità a parte, è la solitudine del viaggiare: nel suo caso, qual è la principale esigenza che ci sta dietro?
«Viaggiando da soli si va più lontano nel senso che la sensazione di libertà è più ampia, ci si organizza e ci si muove in base alle proprie esigenze e ai propri desideri. Il mondo, poi, così lo posso davvero vedere con i miei occhi, e raccontarlo per come l’ho vissuto».
Da diversi anni, a differenza che in passato, si tende a viaggiare anche con bambini molto piccoli al seguito, con l’idea che non si debba rinunciare nemmeno alle mete più difficili. Che cosa ne pensa?
«Non sono del tutto d’accordo, perché spesso la fatica supera il gusto. Non solo: portare bambini piccoli in zone malariche o in aree impegnative non è una cosa benefica per il bambino, che magari preferirebbe stare su una spiaggia in Liguria a giocare. Tanto meno per il genitore, che rischia di stressarsi troppo. Portarsi dietro i bimbi a tutti i costi non ha un gran senso, tutto sommato».
Partire da sole, invece, da che età si può fare secondo lei?
«Io non ho iniziato quando i miei figli erano piccoli, anche perché non avevo aiuti da parte dei nonni. Detto questo, sono d’accordo con il mio amico Enzo Soresi, che nel libro “Il cervello anarchico” scrive che la presenza della figura materna, nei primi tre anni di vita dei bambini, è importantissima. Va benissimo prendersi una giornata per sé, delegare. Ma partire per posti lontani è eccessivo. Meglio aspettare».
Le chiedono mai che cosa ne pensa suo marito?
«Certo, e io rispondo sempre che non lo avrei mai sposato, se non avessi potuto viaggiare da sola. Con questo voglio dire che quando si sceglie una persona, questa dovrebbe conoscere bene la nostra personalità e i nostri bisogni. Io mi sento in gabbia se non vado, se non parto, se non esploro. Per mio marito, dunque, nulla di sorprendente».
E i suoi figli, sono abituati?
«Sì, per loro è la normalità. Credo che siano diventati autonomi anche grazie al mio partire in solitaria e che abbiano sviluppato una certa propensione a viaggiare in posti non troppo turistici, così come a cogliere i dettagli. Sono due ragazzi con uno sguardo particolare, che mi rende felice».
Nel libro racconta che, quando è seduta da sola al ristorante, le chiedono sempre se sta aspettando qualcuno…
«Succede sempre, in tutto il mondo. Questo la dice lunga sul fatto che nell’immaginario una donna non debba viaggiare da
sola. Se è mamma, poi, apriti cielo. I classici luoghi comuni sul fatto che dovrebbe rimanere a casa, e che se parte da sola sta cercando un amante o farà comunque ingelosire il marito, ancora imperversano».
Quali sono le sue mete del cuore?
«Quelle in cui torno: Etiopia, India, Marocco, Gerusalemme e i territori palestinesi».
Che persona sarebbe, senza quelle esperienze?
«Una persona in gabbia, con la colite e altri problemi fisici. Perché se non vado, somatizzo».
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