Il mostro, la strega, la sindrome di Rett. Quando Mariangela Tarì ha potuto dare un nome alle difficoltà che intravedeva in sua figlia Sofia, ha pensato una sola cosa: «Ecco, è finito tutto. Io non sono pronta per questo, il mondo nemmeno. Sofia non camminerà, non parlerà, non mi chiamerà mamma”. Ma è il marito Mario, la sera stessa della diagnosi, a dirle che non è finito proprio niente: «Da quel momento è iniziato un percorso. Un percorso in cui si corre per fermare una malattia che non si può fermare, si studia, non si dorme la notte. E in cui, a un certo punto, mi sono dovuta fermare per mettermi in ordine, vigilare su di me, tornare ad essere Mariangela, riscoprirmi donna, essere la madre che avrei voluto essere. Fermandomi mi sono perdonata, perdonata per tutte le volte in cui avrei voluto scappare, perché non avevo la forza e mi si chiedeva troppo. Quando ho iniziato a poterlo dire e quindi a tirare fuori un po’ di luce, quella luce contagiava anche la mia famiglia».
Mariangela Tarì questa sera è stata ospite, online, di «Incontri esistenziali», dove ha parlato de «Il precipizio dell’amore. Solo appunti di una madre» (Mondadori), il libro nel quale non racconta solo dei problemi dei suoi figli, Sofia e Bruno, ma anche di come il dolore possa essere generativo di qualcosa di buono: “Io sono perennemente sul precipizio. Devo decidere se buttarmi o guardare oltre. Quando Bruno si è ammalato di cancro, ho iniziato a odiare tutti. Mi sembravano tutti troppo più fortunati di me. Ma quell’odio, nella mia casa, non portava nulla di buono. Quando ho iniziato a chiedermi dove avrei potuto metterlo, quel dolore, avevo già aperto una porta. Io ho ogni giorno compio un atto di fede nei confronti di me stessa. Allo stesso modo compio un atto di fede nei confronti dei miei figli. Sofia, per esempio, comunica con gli occhi solo con chi ha un’apertura verso di lei, con chi è in ascolto oltre la malattia».
Il dialogo interiore, per Mariangela, è fondamentale per non incattivirsi e non avercela con la vita: «Solo affrontando le mie emozioni riesco ad avere empatia verso i miei figli, a non ripetermi che fa tutto schifo, a dimenticarmi persino della loro malattia. Perché Sofia è Sofia, non la sua disabilità. Questo non significa che sia facile: anche io mi arrabbio, anche io piango e vado in crisi. Ma mi distrugge, spesso, lo sguardo degli altri. Come la ragazza incinta che un giorno, vedendola, si mise la mano sulla pancia e si girò dall’altra parte. Quelli sono schiaffi, ogni volta bisogna ricominciare daccapo. Come quando si è ammalato Bruno, che doveva essere il figlio sano. Sapere del tumore è stata una tragedia enorme, ho davvero dovuto farmi aiutare. Ho perso venti chili in venti giorni, sono arrivata al Bambin Gesù che ero uno scheletro. Ma lì ho capito che quando stai male non devi pensare: devi fare. E poi accettare. Quando mi sono detta “Mariangela, è così, non puoi farci niente”, ho iniziato a vedere cose che nel dolore non vedevo: il sole sull’Agide, mia nipote, gli amici. Ma la vera magia accaduta è che nel momento in cui sono cambiata io, tutti sono cambiati: Sofia, Bruno, i nonni. Io adesso voglio godermi quello che ho, che è enorme».
E in quella bellezza, c’è la coppia che evolve: «Nonostante le rughe e il cambiamento, io e Mario ci cerchiamo ancora, ci facciamo ancora domande come se ci fossimo conosciuti da poco. In mezzo alla tragedia, siamo ancora noi. Io vedo ancora quel ragazzo che sfrecciava in moto, anche se è diventato più serio. Lui vede ancora la ragazza che gli leggeva le poesie costringendolo a stare sveglio, anche se oggi sono una mamma alle prese con mille problemi». Perché, come scrive Mariangela, si avanza insieme su una fune camminando su punte di gesso, con le braccia larghe alla ricerca di un equilibrio improbabile. Sotto la fune, occhi che guardano, che aspettano: «Degli altri noi abbiamo bisogno. Perché arriverà un giorno in cui anche io e Mario dovremo fermarci».
Mariangela Tarì è la presidente dell’Aps «La casa di Sofia», alla quale viene devoluto il ricavato della vendita del libro. Tra i prossimi progetti, quello di un camp sul mare, in Puglia, dedicato ai bambini con disabilità e alle loro famiglie e basato sulla terapia ricreativa, l’inclusione, lo sport.
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta