Geni ribelli? Niente affatto. I bambini plusdotati (gifted, come li chiamano negli Stati Uniti) altro non sono che bambini come gli altri, con il solo desiderio di imparare e approfondire di più. Lo dice Valeria Fazi, presidente di Aget Italia, a pochi giorni dal pomeriggio informativo che la sua associazione ha organizzato venerdì 16 novembre dalle 15 alle 17,30 a Fratta Terme Bertinoro (sala convegni Fornino Valmori, via Trò Meldola 1216).Un pomeriggio che servirà a informare e formare su un tema in Italia poco conosciuto e poco trattato.
Valeria, chi sono i bambini plusdotati?
“La definizione più accettata ma comunque non condivisa da tutti i professionisti, è che siano coloro il cui quoziente intellettivo oltrepassa i 130, fatta cento la media della popolazione. Chi, invece, è tra i 120 e i 129 viene in genere inserito nella categoria dell’alto potenziale cognitivo”.
Di quante persone stiamo parlando?
“Non ci sono dati certi ma solo stime. Si pensa che i bambini plusdotati siano il 2% della popolazione e che quelli dall’alto potenziale siano il 6%. Con questo quoziente elevato si nasce, tanto è che vero che si tratta di bambini in genere precoci da subito e che una valutazione è già possibile intorno ai due anni e mezzo”.
In America è un argomento noto. Qual è la situazione italiana?
“In Italia scontiamo un ritardo culturale di cent’anni. Gli insegnanti e i pediatri, durante il loro percorso formativo, incontrano spesso il tema del deficit ma mai quello della plusdotazione. Tanto è vero che noi non puntiamo il dito contro nessuno ma mettiamo in evidenza come i problemi vissuti dai nostri figli derivino da una mancanza di conoscenza. La scuola, a quel punto, tende a vedere in loro non l’eccellenza ma le difficoltà, appiattendoli e non riconoscendone i bisogni”.
Di questi bisogni, qual è il principale?
“Non annoiarsi. Non vedono l’ora di andare a scuola ma lo scorrere del tempo, in classe, per loro è estremamente lento. Ci vogliono strategie educative adatte e piani didattici personalizzati che però non sono previsti da nessuna legge. Il fatto che vengano implementati o meno dipende dal mettersi in gioco dei singoli insegnanti, dei singoli dirigenti. I più virtuosi inseriscono gli alunni plusdotati nei Bes (bisogni educativi speciali, ndr) in modo che possano seguire percorsi arricchiti studiati su di loro. Ma siamo alla mercé del volere dei singoli”.
Quando ciò non avviene, quali sono le conseguenze?
“Qualche giorno fa una mamma mi raccontava che quando il figlio era in quarta elementare venne chiamata perché il bambino aveva provato a uscire da scuola. Quando la mamma chiese spiegazioni, lui le rispose che a scuola ci era andato per imparare a scrivere, leggere e fare di conto. Tutte cose che aveva già imparato. Un episodio emblematico del fatto che questi bambini abbiano la necessità di fare altre cose. Ci sono scuole, addirittura, che sconsigliano di iscrivere i bambini plusdotati perché non avrebbero le risorse per seguirli. Noi, invece, miriamo all’inclusività e sottolineiamo sempre il fatto che si tratta di bambini che hanno anche bisogno di vivere la vita per l’età che hanno. Ci spaventa che negli Stati Uniti si possa arrivare all’Università a dodici anni, perché ci sembra escludere tutta la parte relazionale ed emotiva che i bambini perderebbero con i coetanei”.
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