Viene compromesso, l’esercizio della maternità, quando una donna è vittima di violenza? La risposta sarebbe no secondo Samuela Frigeri, presidente del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna. Sarebbe no se nessuno mettesse in dubbio la credibilità e le capacità genitoriali di chi denuncia e si trova, a un tratto, in un vicolo cieco: “Dover tutelare i figli da un lato, non dover ostacolare la loro relazione con il padre maltrattante dall’altro”.

Temi spinosi che saranno al centro del convegno “Parenting in domestic violence. Strategie di intervento per una genitorialità responsabile” in programma l’11 maggio a Bologna (qui tutti i dettagli).

“Quando le donne, magari dopo percorsi lunghi e dolorosi, decidono di farsi aiutare – spiega Frigeri – vengono messe in dubbio. Se non hanno denunciato alla svelta, per esempio, vengono accusate di avere esposto troppo a lungo i figli minorenni alle violenze. Non solo: nei tribunali devono sempre più spesso dimostrare di non avere intralciato il rapporto dei bambini con il padre autore della violenza assistita”.

Dinamiche che rischiano, secondo la presidente, di instillare nelle donne il senso di colpa e di inadeguatezza: “Quando non vengono riconosciute, credute e valorizzate, sono le prime a farsi domande sul fatto di essere delle buone madri, a chiedersi se non avranno esagerato, a prendersi responsabilità che in realtà non hanno”.

Eppure, il riconoscimento sarebbe strategico anche per una miglior riuscita delle strategie di intervento: “Iniziare a credere a quello che le donne raccontano di avere subito è un primo passo per avere davanti persone forti. Purtroppo, invece, tutto è demandato a chi si incontra: l’operatore dei servizi sociali, l’avvocato, il magistrato. Ho l’impressione che la preparazione di alcuni soggetti che lavorano nell’ambito non sia specifica. Forse bisognerebbe partire da un forte cambiamento della formazione universitaria”.