Il suo nome, nella cronaca, è ancora associato al gioco del rispetto che ha fatto tanto infuriare una schiera di genitori a Trieste, due anni fa. Ma lei, Lucia Beltramini, quelle “sterili polemiche” le ha ben che superate, occupata com’è – come psicologa e ricercatrice – nell’attività di prevenzione rispetto alla violenza sulle donne. Tema che dieci anni fa, nell’ambito del laboratorio di psicologia sociale e di comunità dell’Università di Trieste coordinato dalla professoressa Patrizia Romito, ha indagato in uno studio pionieristico dedicato, nello specifico, alla violenza nelle coppie di adolescenti. Argomento che ha portato di recente a Rimini al convegno Supereroi fragili organizzato da Erickson sull’adolescenza, sollevando il velo che ancora resiste intorno alla questione, per lo meno in Italia.
Lucia, che cosa era emerso nel 2007, da quella ricerca?
“Con questionari somministrati a 700 tra ragazzi e ragazze dell’ultimo anno delle superiori residenti in quattro capoluoghi di provincia del Friuli, ma anche in un paese più piccolo, e con alcuni focus group dedicati agli adolescenti e alle adolescenti di due o tre anni in meno, abbiamo cercato di capire le esperienze e le percezioni della violenza nelle coppie. E abbiamo scoperto che il fenomeno esiste, eccome se esiste. Le violenze sono quasi sempre subite dalle ragazze e sono nel 16% dei casi psicologiche: un classico esempio sono i comportamenti di controllo, come chiamare moltissime volte al giorno, pedinare o spiare il cellulare. Comportamenti che potrebbero essere annoverati negli atti persecutori, come è chiamato a livello giuridico lo stalking. Nel 14% dei casi, invece, si tratta di vere e proprie molestie o pressioni per avere rapporti sessuali”.
Quanta consapevolezza avete notato rispetto al fatto che si tratta di atteggiamenti non ammissibili?
“La consapevolezza è bassissima. Spesso sono comportamenti interpretati come segni di amore e interessamento. Le ragazze obbligate, per esempio, a soddisfare sessualmente il partner, ci hanno riferito in alcune occasioni di cedere per la paura di essere lasciate”.
Davanti ai risultati poco confortanti, che cosa avete fatto nel concreto?
“Prima di tutto abbiamo aperto un sito insieme all’Università di Trieste, ‘No alla violenza’, pensato proprio per trasmettere ai ragazzi e alle ragazze il concetto di violenza, il significato del limite, e per raccogliere alcune delle loro storie e testimonianze: ce ne sono di molte forti, leggerle fa capire davvero bene la portata del fenomeno. Quella sezione del sito è quello che tutt’oggi fa registrare il maggior numero di accessi. Abbiamo poi puntato alla formazione degli insegnanti, alle iniziative nelle scuole, a dibattiti e progetti teatrali per avviare una sensibilizzazione capillare sul tema. Insomma, si è lavorato intensamente. E negli ultimi anni qualche altra attività di ricerca si è mossa, anche se ci è voluto tempo prima che il fenomeno iniziasse ad essere visto”.
Per quali motivi, secondo lei?
Anche enti molto importanti mi dicevano che non se ne doveva parlare perché non esisteva. La negazione fa purtroppo parte del più generale tema della violenza contro le donne. Ecco perché bisogna continuare a fare molto anche per formare gli stessi operatori sociali e sanitari: chi lavora nei servizi deve essere in grado di vedere, di capire cosa c’è dietro un sintomo. Il lavoro culturale è importantissimo, la scuola in questo senso è un ambito privilegiato di intervento, anche se non dappertutto si riesce ad entrare”.
Come si lega, la ricerca sugli adolescenti, al gioco del rispetto?
“Indissolubilmente. Dopo tanto tempo passato ad analizzare gli stereotipi di genere che costituiscono il substrato culturale della violenza, abbiamo capito che quando si arriva all’adolescenza, molto è già andato perso. Abbiamo quindi pensato di dar vita a uno strumento che puntasse alla prevenzione primaria, agendo prima che quei presupposti culturali attecchiscano. Il gioco del rispetto è nato così, per lavorare sulla parità e sul rispetto a partire dalla scuola dell’infanzia”.
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