“Ci ho ripensato, i bambini andrebbero in confusione”. “Mi dispiace ma cercavamo un uomo-uomo per assistere mia mamma malata di Alzheimer”. Samantha P., all’anagrafe Wil, dopo tanti anni a lavorare come badante o addetta alle pulizie in diverse famiglie di Ravenna, ha iniziato a vedersi chiudere parecchie porte in faccia. Tutto è cominciato da quando la sua transizione da uomo a donna è diventata più evidente.
Trentasette anni, filippina, Samantha si fa chiamare al femminile solo dalle persone con cui è più in confidenza: “Nell’ambiente lavorativo tutti mi conoscono come Wil o Willy e non mi faccio troppi problemi se si rivolgono a me così. Mi sento a disagio, però, quando usano ‘lui’ o mi dicono ‘bravo’. Mi sono sempre sentita donna, fin da quando ero bambina. E vorrei essere riconosciuta come tale. Purtroppo mi aspettavo che in Italia la mentalità fosse più avanti. Invece mi trovo a constatare che chi è in una condizione come la mia è molto più libero di sentirsi se stesso al mio Paese”.
Nelle Filippine, che ha lasciato sedici anni fa per raggiungere la madre e i fratelli che già si erano trasferiti a Ravenna, Samantha ha un compagno, un uomo separato con tre figli: “Li conosco, li ho frequentati, quando torno li vedo. Per l’ex moglie di lui non è stato facile accettare l’idea che si fosse innamorato di me. Ma credo che sia, di fatto, una questione d’orgoglio. Non ci si ferma mai a pensare che ci si innamora delle persone, del loro carattere e della loro personalità, non tanto del loro sesso di origine o di transizione”.
Nei suoi progetti, dopo le cure ormonali che ha temporaneamente sospeso, il sogno dell’intervento per diventare “a tutti gli effetti donna” c’è, anche se è un desiderio misto alle pressioni che arrivano da fuori: “Ho come la sensazione che, essendo una donna completa, sarei più accettata e più felice. Il mio compagno non mi ha mai chiesto di fare questo passo, forse sono io che, in parte, vorrei farlo anche per lui. La mia famiglia di origine, che non mi ha mai ostacolata, forse sarebbe anche più tranquilla: la paura di mia madre è sempre stata ed è ancora quella che io sia discriminata o trattata male”.
E capita, qualche volta: “Purtroppo le persone associano il mio essere alla prostituzione, motivo per cui preferisco la parola transgender a quella di transessuale. Molti non sanno che ci sono persone che stanno cambiando sesso che non c’entrano nulla con quel mondo, che conducono una vita normale e fanno lavori socialmente accettati“. Samantha, che è infermiera professionista, è riuscita a lavorare fino al mese scorso, poi più niente: “L’ultima famiglia per la quale ho prestato servizio mi ha liquidata dicendo che non si poteva più permettere di tenermi. Ma mi è suonata come una scusa per non dirmi la verità, cioè che a costituire un problema è il fatto che io non sia così definita”.
Senza contare i commenti sotto voce, le offese e le domande dirette: “Ma sei un uomo o una donna?”. Parole pesanti, che portano spesso all’isolamento: “Resto molto tempo in casa, in attesa che mi chiamino per un lavoro. Ho deciso che, per non andare incontro a spiacevoli sorprese, dirò subito che biologicamente sono un uomo ma che mi vesto e mi atteggio da donna perchè così mi sono sempre sentita e considerata. Ma davvero il problema è che non ho ancora completato la conversione uomo-donna?“.
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