Giancarla, moglie di Patrizio morto di Sla: “Ecco come cambia la vita di una famiglia”

Patrizio Morigi
Patrizio Morigi

Giancarla Tisselli, nella vita, fa la psicoterapeuta. Ma mai avrebbe pensato di dover sperimentare in modo così intenso che cosa significa avere accanto un marito con una malattia cronica grave e sentire impotenza, disorientamento, pur alternando i momenti di speranza a quelli di profondo scoraggiamento. Un marito così malato da non potere a un tratto più uscire di casa per andare dallo psicologo. Un marito, Patrizio Morigi, insegnante di estimo e scienze della terra all’Istituto per geometri di Ravenna, scomparso l’11 luglio del 2015 a causa di una Sla (sclerosi laterale amiotrofica) durata tredici lunghissimi anni, molto di più di quei due anni che il medico, al momento della diagnosi, gli comunicò senza mezzi termini. “Patrizio da un po’ aveva iniziato a zoppicare, non si reggeva bene su una gamba. Poi aveva cominciato ad avere delle fascicolazioni. Lo accompagnavo a ogni visita, in attesa di sapere dove stesse il problema. Fino al giorno in cui andò da solo all’ospedale di Ravenna e tornò a casa disperato per la notizia che gli avevano dato. La diagnosi, lo dico per esperienza, andrebbe data dal medico insieme allo psicologo, in un momento concordato e organizzato, successivo a moltissime riflessioni. Non si può annunciare un evento così nefasto senza aver cura degli aspetti emotivi e delle ripercussioni forti sulla psiche del malato e delle persone che gli vivono accanto. Una notizia che cambia la vita di tutti, i valori, i progetti per il futuro, le priorità, facendo iniziare a girare tutto intorno alla malattia”.

Oggi Giancarla, che dal marito ha avuto due figli che hanno 25 e 23 anni, Caterina e Francesco, è tra le fondatrici dell’associazione Psicologia Urbana e Creativa e insieme alle colleghe Valentina Lolli, Elena Mariani e Giselle Cavallari ha portato avanti negli ultimi due anni, insieme all’associazione Kairos, due servizi paralleli: l’assistenza psicologica a domicilio dei malati di Sla e gli incontri di gruppo per i familiari e gli assistenti dei pazienti. Un progetto finanziato dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, con il contributo di Assisla per la formazione delle psicologhe e di Amici in Cerchio per la parte del sostegno ai parenti: “Al momento siamo senza fondi. Speriamo arrivino presto per rilanciare il progetto, che a nostro avviso è fondamentale”.
Giancarla, che sulla sua esperienza ha scritto il libro “Sono fortunato…ho scelto di vivere“, da una frase del marito, sa bene i contraccolpi che una famiglia subisce a causa di una malattia come la Sla: “La malattia sconvolge tutti gli equilibri: il malato viene messo al centro e le esigenze degli altri passano in secondo piano. Per fortuna ho due figli stupendi: i ragazzi erano piccoli quando il papà si è ammalato. Stare accanto a loro per educarli era la sua preoccupazione, piangeva al pensiero di non poterli crescere come aveva desiderato. I viaggi, le vacanze, i compiti insieme, i lavori in campagna, tutto assumeva un altro colore. Per fortuna che c’era anche mia suocera ad aiutarci, una nonna generosa e presente. Ho cercato di costruire una rete di relazioni che sostenessero Patrizio moralmente e concretamente nelle cure di un corpo che perdeva sempre più le funzioni vitali, seguendo mio marito nel decorso della malattia, nelle cure, nei ricoveri, anche per le malattie correlate che gli sono state riscontrate più avanti, tra cui un tumore allo stomaco, alla pelle, e una infezione ai reni. Ma il rischio, per me e anche per i miei figli, è sempre stato quello di negare noi stessi, di dedicarci solo a Patrizio dimenticandosi di noi come persone, dei nostri desideri. Ecco perché ho sempre continuato a lavorare, a insegnare, non trasformandomi mai in una badante. Le donne raramente sottolineano il valore di quello che, con fatica, fanno”. Un lavoro, quello dell’aderenza alla normalità, che Giancarla ha sempre tentato anche con Patrizio: “La persona malata non è solo la malattia. Il sabato, a casa, era sempre un via vai di parenti, colleghi e amici: preparavamo il tè, mangiavamo i pasticcini, c’era chi portava il gelato. Una dimensione importante per tutti e sopratutto per mio marito, affinché si sentisse ancora insegnante, padre, marito, amico, figlio, fratello”.
La scuola, nei primi quattro anni della malattia, è stata un’ancora importante: “Prima appoggiandosi all’ombrello, poi al bastone, poi alle stampelle, poi usando la carrozzina pieghevole e infine quella elettrica, ha continuato a insegnare con l’aiuto degli altri docenti e dei suoi ragazzi: c’era chi gli toglieva il giubbotto, chi gli tirava fuori il materiale dalla borsa, chi gli trascriveva i voti in un foglio affinché io e i nostri figli, a casa, glieli copiassimo nel registro. Caterina e Francesco lo aiutavano a correggere i compiti in classe, invitandolo scherzosamente a essere un po’ più largo di manica, visto anche l’aiuto che riceveva dai suoi studenti. Io gli fotocopiavo le pagine dei libri, visto che non riusciva più a girarle”. 
Dopo la pensione, mentre la Sla avanzava lenta e inesorabile, per Patrizio l’assistenza è diventata un tasto dolente: “La mattina con lui stava Cristina, che aveva sostituito la nostra donna delle pulizie per pochissimo tempo e che poi è rimasta perché, avendo avuto il padre malato di Sla, sapeva fare tutto. Per il pomeriggio e la notte abbiamo passato un vero calvario alla ricerca della badante giusta, vivendo anche la brutta esperienza di venire truffati. Alla fine ce l’abbiamo fatta, anche se Patrizio in certi momenti si arrabbiava, si innervosiva, facendo molta fatica a gestire la paura e la grande domanda sul perché fosse stato colpito dalla malattia. Per un certo periodo l’ho visto più volte stare al computer a leggere articoli sull’eutanasia. Fino a quando, al Niguarda di Milano, è finito ricoverato accanto a un altro malato di Sla che non aveva né moglie, né figli, né soldi per pagare la badante. Da quel momento ha iniziato a intravedere la luce oltre al dolore, ad apprezzare più quello che aveva e a non soffermarsi su quello che gli mancava. La sua resilienza, a partire da lì, ha iniziato a svilupparsi anche con l’aiuto della fede“.
Una scoperta che ha contagiato l’intera famiglia, poco a poco: “Io e Patrizio eravamo sposati in Comune, i nostri figli non erano stati battezzati e non avevamo fatto quindi né la Comunione né la Cresima. Io, però, da qualche tempo vedevo sempre davanti a me un cuore con una fiamma, che sapevo aver visto da bambina in Duomo. E un giorno, mentre aspettavo di andare dal dentista, ho visto le porte del Duomo spalancate. Quando sono entrata non c’era nessuno, se non un prete inginocchiato al confessionale. Quando mi sono avvicinata e gli ho raccontato la mia storia e la mia urgenza di riavvicinarmi alla fede, mi ha dato la benedizione, invitandomi a rivolgermi a Don Giuliano di Sant’Agata, che era la mia parrocchia di riferimento: è stato lui a regalarmi un ritratto di Gesù con il cuore e la fiamma, proprio quello che mi appariva spesso davanti. Dopo averlo portato a casa, sia mia figlia che mio figlio hanno deciso gradualmente di voler fare il battesimo e la cresima. E la conversione, poi, ha toccato anche mio marito. Fino a che il primo ottobre del 2013, in occasione del nostro 23esimo anniversario, io e Patrizio ci siamo sposati in chiesa”.
Sebbene le tante preghiere e invocazioni, sebbene Giancarla avesse sempre immaginato che prima o poi suo marito si sarebbe ripreso, un giorno, poco prima della sua morte, l’ha visto troppo stanco: “Fare qualsiasi cosa, per lui, era diventato un problema. Quel giorno aveva la febbre, faticava a respirare. Io, che fino a quel momento avevo sperato, ho pensato per la prima volta ‘sia quel che sia’. Ho chiamato il pneumologo, che lo ha fatto ricoverare a Faenza: era giovedì, il sabato ci ha lasciati”.

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