Spiegare ai propri figli di avere il cancro è complicato e doloroso. Ma tenerli all’oscuro di tutto non farà il bene di nessuno. Ne è convinta Lucia Polpatelli, psico-oncologa del Sant’Orsola di Bologna, che sul tema ha scritto il libro “Parliamone. La malattia spiegata ai miei figli” che verrà distribuito all’interno dell’ospedale nelle prossime settimane e, con molta probabilità, diffuso anche all’esterno. Il libro è illustrato da Alain Cancillieri.
Dottoressa, lei ha una lunga esperienza sul campo, anche all’estero. Che cosa l’ha spinta a mettere nero su bianco un tema così importante?
“Tantissimi anni fa lavoravo a Parigi, dove incontrai un bimbo di cinque o sei anni, Davide, che aveva appena perso la mamma per un tumore all’ovaio. Un bimbo che teneva sempre la testa bassa, che aveva smesso di mangiare e giocare. Mi chiamarono proprio per affrontare il suo caso, che all’inizio mi sembrò molto ostico. Fino a che un giorno Davide alzò la testa e mi disse che in passato la sua mamma, durante un litigio, gli aveva detto che sarebbe morta a causa sua. Quale mamma, stanca e arabbiata, non ha mai detto al proprio figlio ‘mi fai morire’? Il punto è che a Davide nessuno aveva detto che la sua mamma non si era ammalata per colpa sua. Non ho mai smesso di pensare a quel bambino e all’importanza di dire le cose per bene, anche se sono terribili”.
Un argomento tabù?
“Sicuramente poco affrontato e valutato. Poco tempo fa, proprio in Romagna, un bimbo ha perso la mamma per un cancro. Ho parlato con le sue insegnanti della scuola dell’infanzia per le indicazioni del caso. Ma loro non hanno rinunciato a festeggiare la festa della mamma. Non solo: hanno pensato bene di chiamare sul palco le mamme, una alla volta. Un episodio raccapricciante, purtroppo non l’unico che mi è capitato in tanti anni di lavoro”.
Molti sostengono che i bambini vanno protetti da certe verità. E invece?
“E invece le cose, anche se brutte, vanno comunicate. Certo, con tante riflessioni a monte e le dovute maniere, considerando anche l’età dei bambini. Che comunque, anche se tenuti all’oscuro, captano certi segnali, colgono i cambiamenti che avvengono in casa e famiglia, visto che le malattie oncologiche si abbattono come tsunami sulle vite e sugli equilibri. I più piccoli sono anche in grado, spesso, di ammortizzare meglio degli adulti certi colpi. La settimana scorsa una donna ligure è venuta a operarsi al Sant’Orsola e, alle figlie di otto e dieci anni, ha raccontato che sarebbe andata via per un viaggio di lavoro. Ma ora dovrà tornare a casa con i punti e la chemioterapia da affrontare. Il problema di dirlo e di come dirlo le si ripresenterà. Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio da un ragazzino di tredici anni, che insieme ai due fratelli ha appena perso la mamma. Mi ha scritto che non potrà consolarsi ma mi ha ringraziata perché avevo detto alla mamma di raccontargli la verità sul suo stato di salute e lei lo ha fatto”.
I figli sono più un peso o più un’ancora, in questi drammatici casi?
“Sono, come ripeto spesso, un supplemento d’angoscia. Ma anche un motivo in più per combattere e tenere duro. Quando conduco i gruppi terapeutici con i figli dei pazienti, insieme cerchiamo di diluire fatica e sofferenza, in certi casi anche la morte. Le ricette universarli non esistono, certo, e il lavoro da fare è tanto. Ma sempre meglio che escludere i bambini e i ragazzini, imbrogliandoli su quello che sta succedendo”.
In questo contesto che valore hanno le lacrime, il pianto?
“Piangere, e magari farlo insieme, è più che mai necessario. Troppo spesso sento dire ‘non piangere, sei grande’. Invece se un genitore si emoziona e tira fuori quello che prova, legittima anche i suoi figli a farlo”.
E lei, da medico, come attutisce tutti questi colpi?
“Mi porto a casa ogni giorno tonnellate di sofferenza. Che, però, mi consentono di ridimensionare tante scemenze. Qualche giorno fa, dopo essere uscita dall’ospedale, ho trovato sotto casa il mio vicino infuriato perché all’assemblea di condominio si era deciso di cambiare le lampadine dei garage. Ecco, in questi casi ci si sente quasi dei disadattati. Continuo il mio lavoro con la convinzione che servirebbe un vero e proprio servizio di psico-oncologia ospedaliera. Per il momento si fanno solo interventi spot grazie a una convenzione del Sant’Orsola con il dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna”.
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