Fare da mamma alla propria mamma: “Sfato il tabù della vecchiaia e dell’assistenza”

mamma a carico

“Nella mia vita c’è una vecchia. Ha più di novant’anni e un ciuffo disordinato di capelli bianchi che schizzano verso l’alto. È cieca, e porta occhiali 3D perché è abituata da sempre avere qualcosa sul naso. Non cammina più e la testa ogni tanto va per conto suo. Quella vecchia è mia madre”. L’attrice teatrale Gianna Coletti è partita dalla sua storia personale per affrontare un tema attualissimo ma ben poco trattato: quello dei genitori che invecchiano e che hanno bisogno di assistenza, quello della mancata accettazione dell’idea della morte, quello del ribaltamento dei ruoli per cui le donne diventano quasi mamme delle proprie mamme. Lo ha fatto nel libro “Mamma a carico. Mia figlia ha novant’anni” (Einaudi) che continua, di fatto, il racconto fatto da Laura Chiossone nel film “Tra cinque minuti in scena”, dove la “vecchia” protagonista è davvero la madre dell’autrice.
Gianna, come si sarebbe immaginata, prima del precipitare degli eventi legati alla salute di sua madre, la sua vecchiaia?
“Molto diversamente da quella che poi è stata fino alla fine dei suoi giorni. Vedevo benissimo che cosa le stava accadendo ma, con un ottimismo ingenuo, me la raccontavo, sperando che la situazione potesse migliorare, anziché peggiorare drasticamente. Avevo forse anche sottovalutato il carattere di mia madre, ribelle fino allo stremo, incapace di accettare la propria condizione, in primis la cecità”.
Qual è stato l’aspetto più innaturale del nuovo rapporto che, essendo lei bisognosa di cure, si era creato tra voi?
“Il paradosso di fare da madre a una persona che però non è una bambina. A una persona che sai già a cosa va incontro, che nonostante tutto non si vuole lasciare gestire e che mi ha mandata a quel paese fino alla fine. Una persona che hai il compito di intrattenere di continuo e della quale hai piena responsabilità, sentendo di continuo la morte sul collo”.
La sua psicologa, un giorno, le disse che il problema non era sua madre ma lei stessa: in che senso?
“Mi rimprovero di non avere saputo accettare quello che stava avvenendo come la cosa più naturale del mondo. Di avere continuato a lottare contro i mulini a vento e a sperare invano, quando invece avrei dovuto impegnarmi per farla stare al meglio ma prendendo, al tempo stesso, le giuste distanze. Il che non significa – e mio marito, con i suoi commenti, in questo caso è un maestro – non soffrire: bisogna mettersi a disposizione, certo, ma con maggiore serenità e preservando anche se stessi. Credo che un atteggiamento del genere avrebbe fatto meglio a mia madre e anche a me, in vista di quando lei non ci sarebbe più stata”.

Gianna Coletti
Gianna Coletti

Ribellioni, badanti cacciate via, litigate e rimproveri: si vive con qualche senso di colpa, dopo?
“Questi vecchi, e uso il termine vecchio perché credo non ci sia nulla di male a farlo, fanno parecchio arrabbiare in certe occasioni. ma credo sia sbagliato sprofondare nei sensi di colpa: bisogna sapersi perdonare i pensieri brutti”.
L’irrequietezza di sua madre era legata al carattere o alla sua lotta per la sopravvivenza?
“Di carattere mia madre era sicuramente poco docile: aveva perso un figlio piccolo da giovane, a vent’anni era fuori casa con un marito che c’era e non c’era. E, per vivere, si era sempre dovuta aggrappare con le unghie a tutto. Ma nei suoi ultimi anni, credo che la sua ribellione sia stata anche la dimostrazione di un incredibile attaccamento alla vita. Ed è l’insegnamento più grande che mi ha lasciato”.
Quando esprimeva il desiderio di morire, quindi, non lo diceva sul serio?
“Assolutamente no: lo diceva per sfidarmi, per rompermi ancora una volta le scatole, lo diceva per chiedermi di aiutarla, al contrario, a vivere e rimanere qui”.
Perché, di questo argomento, si parla così poco?
“Perché disturba molto. Nonostante il libro e il film, è tutt’ora un enorme tabù. Eppure mi arrivano una marea di lettere, messaggi e mail di persone che si sono riconosciute in questa storia. Donne, per lo più, sole e senza la possibilità di condividere la disperazione e il dolore con qualcuno. Presto ci sarà un’emergenza sociale: le badanti vanno pagate e non tutte le famiglie se le possono permettere, il peso della gestione dei genitori pesa quasi sempre sulle spalle delle donne, già compresse tra lavoro, mariti e figli. Lo Stato dovrebbe intervenire a livello economico. E dovrebbero esistere percorsi di supporto psicologico per chi si sobbarca di tutto questo”.

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