Se ti chiami Alberta Basaglia, anche se nella quarta di copertina del tuo libro non c’è scritto, molti penseranno che tu sia la figlia di Franco, quello della battaglia per la riforma dei manicomi. E infatti lo sei. Lo sei anche se, lungo le 91 pagine, tuo padre (a parte una volta) lo chiami per nome, “perché sai, ho appena compiuto sessant’anni e chiamarlo papà non so, non ci stava”. Alberta Basaglia, tra i “matti”, ci è cresciuta. A Gorizia, sì. Dove suo padre, lo psichiatra ispiratore della famosa legge del ’78, venne chiamato all’inizio degli anni Sessanta a dirigere l’ospedale psichiatrico. E lì iniziò quella che sua figlia, autrice insieme alla giornalista Giulietta Raccanelli di “Le nuvole di Picasso” (Feltrinelli), definisce “la rivoluzione più normale del mondo”. Ne parlerà venerdì 22 aprile alle 18 alla Feltrinelli di Ravenna (via Diaz 14) nell’ambito delle iniziative “…e poi portammo al mare. Memorie nel presente Ravenna Trieste 1973” organizzate dal Comune.
Un appartamento nel Palazzo della Provincia. La spola tra Gorizia e Venezia. Tavolate infinite con medici e operatori. Da bambina aveva la percezione del cambiamento che suo padre stava portando nella disciplina psichiatrica e in sostanza nella storia italiana?
“No, assolutamente. Le prime percezioni in questo senso sono cominciate da ragazzina. Vedevo bene che la vita che facevamo non era la stessa che conducevano le mie compagne di classe. Ma una parte di vita ‘normale’ l’avevo anche io. Solo dopo, quando ho iniziato a sentire i primi commenti intorno alla nostra famiglia e al mio cognome, ho colto il significato di tutto”.
Ma lei, dei matti, aveva paura?
“Certo, come tutti. Il punto è che se la paura non la affronti, non cambierai mai nulla. La paura fa parte della vita, quando la combatti si rimpicciolisce”.
Fin da bambina ha avuto un problema agli occhi, un coloboma che la costringeva a tenere la testa piegata. La sua diversità l’ha aiutata a sintonizzarsi più facilmente con quella degli altri?
“Avrei preferito di certo non soffrire di alcun difetto visivo e capire le cose in altro modo. Certo è che il mio problema non mi veniva fatto vivere come tale, che la mia fatica rientrava nella normalità. E questo, inconsciamente, può avermi resa più disponibile a capire ed apprezzare la diversità umana in senso lato”.

Suo padre viene descritto come una figura a volte ingombrante, addirittura non contestabile come avveniva per gli altri genitori durante il Sessantotto. Come ha vissuto il paradosso?
“Il conflitto con lui non c’è stato, almeno non secondo i soliti canoni. Quando eravamo in giro e veniva riconosciuto per strada mi faceva piacere ma c’erano volte in cui veniva pure contestato, non era certo una rock star. Sono stati passaggi non facili ma, rivisti ora, senz’altro affascinanti”.
Lei, da adulta, ha fatto ricerche sui bambini internati negli ospedali psichiatrici e poi, da psicologa, si è occupata di violenza sulle donne. Ha sentito una sorta di obbligo morale nell’intraprendere la sua strada?
“No, è stato tutto naturale. Al massimo, i miei genitori, hanno provato una volta a consigliarmi di fare tutt’altro. Ma io me la sono andata a cercare. Mio fratello Enrico, invece, ha scelto tutto un altro mestiere”.
Oggi, a distanza di 36 anni dalla morte di suo padre, che rapporto ha con il suo cognome?
“Per molto tempo l’ho sentito pesante, nel bene o nel male a seconda delle situazioni. Ho lottato per evitare che mi riconoscessero sempre come la figlia di Franco Basaglia. Poi, quando è venuto a mancare, mi sono detta: ‘Non posso mica fare finta di non esserlo. E alla fine, è una cosa bellissima’”.
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