Premio alla risata per Francesca Mazzoni: “Una rivoluzione”

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Francesca Mazzoni

No, non se lo sarebbe mai aspettato. Soprattutto dopo il suo ultimo libro “Una mente insolente” (Il Ponte Vecchio) dove la protagonista, Allegra, attraversa e sperimenta mal di vivere, fragilità umane e bisogno d’amore. Eppure l’attrice teatrale e scrittrice ravennate Francesca Mazzoni ha vinto il premio “Meglio ridere 2016” dell’assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Riolo Terme. Riconoscimento che le sarà consegnato giovedì 3 marzo (sala San Giovanni, ex chiesa, ore 20 e 30), con qualche giorno d’anticipo rispetto alla Festa della Donna.
Francesca, che effetto le fa ricevere un premio alla comicità?
“Per una come me che è passata attraverso episodi depressivi importanti, un premio di questo genere è motivo di stupore e gioia infinita. È motivo di orgoglio per ‘la categoria’, ecco. Perché io questo premio lo dedico a quelli come me che furono ritenuti non idonei alla felicità o comunque ‘difettosi’, ‘fallati’ e che non hanno accettato che la loro vita coincidesse con una patologia o un generico disagio. Quelli che sono andati oltre ai pronostici, oltre alle diagnosi. Siamo una folla di persone fragili e sghembe, ma ostinatamente attaccate alla vita, all’emozionarsi, alla creatività. Siamo un esercito di sognatori e questo premio è una delle nostre medaglie. Ai sognatori, dunque. Vorrei che il mio premio fosse un grande incoraggiamento per gli altri. Un monito come a dire ‘se ce l’ha fatta lei, perché non dovrei farcela io??’. Perché dare un premio legato alla risata a una depressa è una vera rivoluzione. E fa ben sperare. Un po’ come se il Pulitzer lo vincesse un analfabeta”.
Perché, nonostante i suoi temi riguardino spesso il dolore e le sconfitte (ma anche le risalite, certo), crede di essere stata associata a una risata?
“Io parlo di dolore e sofferenza ma mai di sconfitta. Parlo di inciampi che però portano sempre alla strada che conduce a se stessi e alla propria crescita. Non credo nella sconfitta, se non è supportata da un atteggiamento di rassegnazione e vittimismo. Se iniziamo a piangerci addosso, allora quella è la disfatta totale. Ma se abbiamo la forza e la fiducia di credere che anche quel nodo doloroso si scioglierà, quello sbrago guarirà, abbiamo già vinto. La vittoria è non permettere al destino o a chi per lui di farci sentire sfigati. Lo scacco matto alla sfiga è il decidere che si può gioire ovunque, anche nelle difficoltà. Se ci prendiamo la libertà di scegliere le emozioni che vogliamo comunque provare, indipendentemente dalla situazione, ecco che abbiamo vinto. Non è facile, ma si impara e ci si allena proprio come con la palestra”.
Che cosa c’è di comico (se c’è) in quello che racconta o interpreta nel tuo lavoro?
“Credo che la mia comicità sia nel contrasto, perché della vita io percepisco i divari, le discrepanze, le contraddizioni surreali. Tra ciò che uno è e ciò che vuol sembrare, ad esempio. Riesco a intravedere la crepa tra i piani di realtà e finzione e, se ci butto dentro un occhio, lì si che c’è da ridere. La vita è buffa e noi siamo buffi ancora più di lei. Per questo io uso tanto gli ossimori e le metafore che tendono proprio alla dissonanza. Vedo i personaggi che creo o interpreto e provo una gran tenerezza perché stare al mondo, anche se di carta o dietro un sipario, è una gran fatica. E nessuno ne uscirà in piedi, dicono. Per cui meglio ridere davvero. Per cui tanto vale essere ironici soprattutto con se stessi, sdrammatizzare. Nel mio libro, ad esempio, parlo di disagio psichico con leggerezza, la leggerezza a cui fa riferimento Calvino, il planare sulle cose preservando il cuore dai macigni. Siamo tutti parte di un ingranaggio o un disegno, chiamalo come vuoi tu, immenso e tremendo in cui il terribile si fonde col meraviglioso. Ecco, io ho scelto di soffermarmi sulla meraviglia. Lo scelgo ogni giorno. Non è automatico, ma per quanto mi riguarda ne è sempre valsa la pena”.
copertina-definitivaPensa sia più comica lei come Francesca o la realtà che ci restituisce?
“Non credo che si possa restituire una realtà molto dissimile da ciò che si è. O perlomeno me lo auguro. Quindi direi che le due cose vanno assolutamente di pari passo, una implica l’altra, ne è il presupposto necessario, la conditio sine qua non. Di sicuro ho una predisposizione innata alla battuta, alla ‘caciara’, che forse mi viene dal mio nonno toscanaccio. Per dirla come mio nipote, ‘tendo a mandarla in vacca’, forse perché troppo sentire fa male, forse per stemperare la carica emozionale della realtà sul mio cuore che è un ricettore delicato. Poi ci sono fattori che mi rendono proprio buffa, tipo che ho una miopia molto elevata e una scarsa manualità. Sbatto dappertutto, sono poco attenta: un fumetto. Al mio primo funerale, tanto per fare un esempio, ho sbagliato morto. Sono rimasta a lungo accanto alla bara di quest’ometto piccino, mentre il mio prozio era un omone e intanto nella testa mi dicevo ‘che brutto lavoro fa la malattia, proprio vero che ti mangia’. Le signore intorno mi guardavano incuriosite e io compitissima, lo sguardo basso come ritenevo dovesse essere appropriato fare, molto solenne ed enfatica. Avevo notato anche un cartellino attaccato alla caviglia della salma, con un nome che ovviamente non aveva a che fare col mio parente, ma non ci avevo fatto caso. Poi ricordo che arrivò mia madre e mi sussurrò all’orecchio ‘sì, però ora vieni di là dallo zio’. Nell’altra stanza c’erano tutti i miei parenti e il mio prozio nella bara era uguale spiccicato a come era in vita. Il mio primo morto si chiamava Flavio. Mio zio no”.
“Meglio ridere”: vale anche per chi è passato dalla depressione e dalla dipendenza affettiva?
“Di più, vale persino di più. Si conosce così profondamente il contrario, l’assenza da aver una vera e propria fame di risate e allegria. Funziona come l’amore per un orfano, come il cibo per uno che è cresciuto nella fame. Io vedo mia nonna che ha fatto la guerra e, per reazione, sforna ininterrottamente quantità bibliche di manicaretti. Lo fa per rassicurarsi secondo un logico meccanismo di compensazione. Ecco, io uguale: io che sono stata a letto paralizzata dall’angoscia, per reazione, sforno allegria in dosi massicce. E’ il mio modo di cantare sulle ferite, il mio riscatto grande”.
L’ironia, secondo lei, davvero alla fine ci salverà?
“Esiste forse un altro metodo? Sì, ci salverà. E, se non ci salverà, almeno ci saremo fatti ‘na bella ghignata”.

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