Tre tentativi di fecondazione assistita, l’ultimo andato a segno. Adele Lapertosa, giornalista e mamma di Teodora, di quasi tre anni, l’aveva promesso a se stessa: se fosse riuscita a coronare il suo sogno di maternità, avrebbe scritto un libro per tutte quelle (e tutti quelli) che passano dalla Pma. Perché quando sei nel guado, procedi a tentoni e non intravedi la luce. E una guida è quanto mai necessaria. Il risultato è “Il bambino possibile. Guida alla fecondazione assistita” (Il Pensiero Scientifico Editore), dove accompagna i futuri genitori tra diagnosi di infertilità, esami, tecniche, farmaci.
Adele, quando ha intrapreso la fecondazione per diventare mamma, che cosa le è mancato di più?
“Qualcuno che mi desse le informazioni di base, che mi facesse vedere tutto il percorso. Io e mio marito avanzavamo alla cieca, senza capire cosa stesse succedendo e dove saremmo andati. I nostri tre tentativi, in tre centri diversi, sono stati tre mondi differenziati: solo all’ultimo abbiamo capito che il vero nodo nella questione non aveva a che fare con mio marito ma con me, che avevo una scarsa riserva ovarica e un problema di trombofilia”.
Del tema si era occupata anche come giornalista: cambia lo sguardo, quando si vivono le cose da dentro?
“Già prima che capitasse a me, trovavo la legge 40 una grandissima bestialità. Io, per fortuna, ho iniziato nel 2011, quando molte limitazioni erano cadute. Fatto sta che finché non li provi sulla tua pelle, non conosci la disperazione, la solitudine e il senso di incomprensione di cui sarai vittima. Tra chi pensa che quello di avere un figlio a tutti i costi sia un capriccio e le facili speranze di chi ti fa credere che quel figlio prima o poi arriverà, senti di essere al centro di una montagna di pregiudizi difficili da superare”.
Ci sono molti luoghi comuni, quando si parla di Pma?
“Sì, si crede che i tentativi di fecondazione siano esperimenti scientifici su cavia. Purtroppo in Italia, anche a causa della mancata educazione sessuale nelle scuole, c’è scarsa conoscenza dell’apparato riproduttivo umano. Già quando parli di embrione, ti guardano storto. C’è un’ignoranza diffusa anche tra le persone più colte”.

Quello dei centri viene spesso descritto come un mondo parallelo, che non si incrocia mai con la realtà: è così?
“Lo è. Quando entravo in reparto per i monitoraggi, notavo sempre i faldoni tra le mani delle donne: le cartellette della disperazione, piene di esami, referti, informazioni. Ci si sente sulla stessa barca delle altre coppie ma molto lontani dal mondo di fuori, dove si pensa che basta desiderare un figlio per averlo, senza che nessun ginecologo ti dica che gli ovociti dai 32 anni iniziano a scarseggiare e dai 35 crollano vertiginosamente”.
L’eterologa adesso è consentita anche in Italia: tutto risolto?
“Assolutamente no. Ci sono liste d’attesa infinite, ci sono scarse donazioni di gameti, manca una cultura e una sensibilità rispetto alla donazione. Non siamo abituate a ragionare in prospettiva, a vent’anni non ci viene in mente che potremmo congelare i nostri ovociti, nel caso ci servano più avanti, quando non ne produrremo più. Un circolo vizioso che ci vede ancora parecchio indietro”.
Un giorno racconterai a Teodora come è nata?
“Credo proprio di sì. Il diritto di essere mamma non c’entra nulla con la natura. Non si dice mai che i problemi di infertilità sono problemi di salute, non capricci. Raccontarle la sua storia servirà a farle capire quanto è stata desiderata, quanto abbiamo lottato per averla”.
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