L’azdora vista dalla comica Maria Pia Timo: “Una vera leader”

6123121_414738La Bruna e il suo semolino fritto. L’Ivana e la trippa con la piadina. La Iolanda e i crescioni. La Grazia e i passatelli. Piatti locali a parte, il mondo raccontato dalla comica faentina Maria Pia Timo (la famosa Wanda la carrellista di Zelig) nel libro “La Vespa Teresa. Ricette e storie di donne di Romagna” (LT editore) che verrà presentato questa sera alle 20,30 nel Cortile della Rocca di Riolo Terme (in occasione della quarta edizione della Fiera del Libro Romagnolo), è molto più che culinario. Le vere protagoniste sono infatti le biografie delle azdore protagoniste della trasmissione tv “La Vespa Teresa” andata in onda su Alice Tv.
Maria Pia, le donne che ha incontrato in giro per la Romagna hanno un punto in comune?
“Non mi piace mai generalizzare, anche perché sono donne di età molto diverse. Ma non c’è dubbio che, ad accomunarle, ci sia un certo fare brusco: hai sempre l’impressione che abbiano talmente tante cose da fare che, per i fronzoli e i complimenti, non c’è spazio. Lo noti appena ti aprono la porta: sono delle vere leader”.
Le loro storie odorano di un mondo che non c’è più: di cosa si prova più nostalgia?
“Io ho 46 anni e certe cose riportate dalle azdore mi sono sembrate pura fantascienza: lavare i panni al fiume, lasciarli asciugare sui prati di camomilla. Carolina, una delle donne, mi raccontava l’impresa biblica e titanica che era il bucato. Per lei, l’invenzione più rivoluzionaria è stata senza dubbio la lavatrice. D’altro canto, in quel mondo rurale, dove la guerra ha lasciato un segno indelebile, l’elemento della socialità era centrale: oggi noi donne siamo molto sole, chiuse nei nostri appartamenti con le nostre famiglie. Allora si viveva in tanti, ci si incontrava la sera per fare ‘trebbo’ o ‘veglia’. I momenti per la convivialità erano frequentissimi”.
Lei se la cava bene come le azdore, ai fornelli?
“Mi piace molto cucinare e credo di farlo anche bene. Non sono portata per la pasticceria, questo no: troppo tecnica, tropo precisa, troppo chimica. Se sbagli una dose, butti via il dolce. Negli altri piatti è diverso: se nella pasta e fagioli aggiungi il basilico al posto del rosmarino, male che ti vada ci guadagni in gusto”.
Forlimpopoli, Castel Bolognese, Tredozio, Casola Valsenio, Rimini, Bertinoro: sono solo alcune delle località che ha attraversato. Ha trovato molte differenze da un posto all’altro?
“Una marea. A partire dal dialetto, che cambia nel giro di pochi chilometri. Per non parlare della cucina: avere il pesce o non averlo, disporre delle pecore o no faceva la sua bella differenza. Non avevo mai sentito parlare né degli ingannapreti, preparati con l’illusione del ripieno né dei giuggetti, dove alla farina veniva mescolata la farina di polenta, più povera. E poi gli utensili: una signora conserva ancora un vecchio fornello costruito con dei blocchi di sasso, sui quali ha preparato la lepre in salmì. E ho scoperto un attrezzo per montare le uova fatto a mo’ di imbuto: mi è sembrata una rarità”.
Che impressione ha avuto delle famiglie di un tempo?
“Erano come delle aziende e le azdore erano gli amministratori delegati: dal numero di uova da vendere al momento giusto per castrare i polli, sapevano davvero tutto. Non era neanche necessario che l’azdora fosse sposata: poteva essere la classica zia zitella. Ma trainava tutti”.
Il libro è dedicato a sua suocera e a sua mamma: una scelta insolita…
“A mia suocera perché cucina benissimo, anche se non sono riuscita a convincerla a partecipare al programma. E perché da giovane ha vissuto il passaggio del fronte a Cotignola, dove venne separata per tre mesi, insieme alle sue due sorelle, dal resto della famiglia: i suoi sono racconti meravigliosi. A mia madre perché ha una forma pesante di Alzheimer e da lei non posso più farmi raccontare nulla: tutta la ricchezza che ho per le mani è quella che mi ha consegnato prima della malattia”.

In questo articolo c'è 1 commento

Commenti:

Commenta

g
To Top