
C’è il cardigan di Cristina Golinucci sulla poltrona dove amava sedersi accanto al camino. C’è la cameretta bianca e rossa di Nicholas Ravaioli, con i suoi peluche e la foto da bambino. Un mondo sospeso, come congelato, quello raccontato dalle dieci immagini di Vincenzo Pioggia, il fotografo che sabato 11 ottobre alle 16 inaugurerà la mostra “I vuoti che colmano” alla Galleria Ninapì- Nesting Art Gallery di Ravenna (via Giovanni Pascoli, 31). Un progetto dedicato alle famiglie delle persone scomparse e che è stato reso possibile grazie all’associazione Penelope Onlus Emilia Romagna presieduta da Marisa Degli Angeli, che dal primo settembre del 1992 non sa più nulla della figlia, la Cristina Golinucci per tanti anni al centro delle cronache e di cui anche Romagna Mamma qualche mese fa ha raccontato la triste vicenda. La mostra si inserisce all’interno dell’evento multimediale Mondi S.o.s.pesi che vedrà tra i protagonisti i Milliar, il gruppo musicale formato da Angela Stella e Daria Milliar, che dopo una folgorante esperienza a Parigi, sono diventati molto sensibili al tema delle persone scomparse, come ci avevano raccontato qui e come dimostra, tra le altre cose, il loro brano “Un passo da giganti”.
Vincenzo, quanto è stato difficile varcare il confine di quelle stanze rimaste intatte?
“Moltissimo, è servita molta delicatezza, ci è voluto molto rispetto. Ma grazie a Penelope, le dieci famiglie che ho incontrato si sono aperte senza grossi problemi. Per quanto doloroso sia stato per loro rievocare storie così private, parlarne è stato utile per affrontare un argomento poco trattato. Le mie foto, infatti, non sono importanti per il loro senso estetico, quanto perché spero servano a sensibilizzare le persone sull’argomento”.

Che cosa ti ha colpito, per lo più, di quelle stanze?
“Il loro essere immobili, lontane dal tempo che scorre. La vita dei familiari va avanti, fuori il mondo continua a girare. Ma in quelle camere è tutto fermo. Ci sono oggetti che quasi non si usano più, come vecchi modelli di computer”.
Qual è il filo che lega le famiglie che hai incontrato?
“La disperazione di non avere una certezza alla quale attaccarsi. Non sapere che fine ha fatto un familiare è quasi peggio di saperlo morto. Anche negli occhi dei genitori più rassegnati, ho visto la voglia di avere una verità in mano, pur terribile e definitiva. Non averla ti fa vivere in un limbo”.
Come hai lavorato, dentro quelle stanze?
“Alcune le ho trovate imbalsamate, lasciate com’erano rimaste nel giorno della scomparsa. Certi genitori, addirittura, non amano aprirle, le tengono chiuse, con tutti i ricordi sigillati al loro interno. Altre, invece, le abbiamo in parte ricostruite, come nel caso di Cristina Golinucci. La madre Marisa aveva conservato un cardigan e abbiamo pensato di appoggiarlo sulla poltrona che era appartenuta alla figlia”.

Hanno punti in comune le storie che hai intercettato?
“Sono le più svariate. Alcune risalgono agli anni Novanta, altre a poco tempo fa. Alcune riguardano persone molto giovani, altre anziani. Abbiamo affidato alle voci dei familiari il racconto telegrafico delle scomparse che li hanno colpiti. Sabato presenteremo un video con le brevi interviste che abbiamo girato”.
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