Un uomo violento, per uscire dalla spirale di quello che probabilmente si considera in diritto di fare, impiega in genere tre mesi: ma solo per la parte fisica. I maltrattamenti psicologici e quelli d’altro tipo ci mettono molto di più a scomparire. Questo succede al Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze, una delle poche esperienze del genere esistenti in Italia (alle quali vanno aggiunti una decina di progetti) che verrà presentata domani dalla coordinatrice, Alessandra Pauncz. La psicologa parteciperà alle 9,30 alla Sala D’Attorre di Ravenna al convegno “La violenza maschile nelle relazioni intime” organizzata dalle associazioni Femminile Maschile Plurale e Dalla Parte dei Minori.
Dottoressa, quello che pare uno spostamento dell’attenzione dalle vittime di violenza agli autori di violenza è effettivamente tale?
“Io credo sia importante cominciare a parlare di violenza ponendo al centro chi la agisce: è un modo per mettere gli uomini davanti alle loro responsabilità. Tutto questo lavoro, che a Firenze portiamo avanti dal 2009, non esclude affatto gli altri tipi di interventi, come la protezione e il sostegno delle donne vittime. Purtroppo, però, assisto ad una mancata condivisione da parte di molti operatori. Si pensa che lavorando sugli autori, le vittime vengano accantonate ma non è così. Trovo il dibattito sulle risorse noioso. La violenza è un problema complesso, sociale e culturale, serve un’operazione a 360 gradi”.
Quanti uomini avete assistito in questi quattro-cinque anni?
“Dal 2009 ad oggi hanno fatto richiesta d’aiuto 250 persone: nei primi due anni molte richieste arrivavano anche da altre parti d’Italia, nell’ultimo anno e mezzo invece abbiamo assistito ad un aumento di richieste da chi vive in zona. Al momento abbiamo una quarantina di persone in carico”.
Gli uomini che seguite sono simili per tipologie?
“No, c’è una grande varietà. Il più giovane ha 24 anni, il più anziano 68. Andiamo da ragazzi appena laureati a pensionati. Spesso la relazione con la compagna o la moglie è di lungo periodo e ci sono di mezzo figli”.
Sono gli uomini a rivolgersi direttamente a voi?
“Nella maggior parte dei casi sì, arrivano spontaneamente. Abbiamo, in ogni caso, rapporti con i servizi sociali e di salute mentale e una convenzione con l’ufficio di esecuzione penale: ciò non toglie che l’adesione ai nostri percorsi sia volontaria”.
Il vostro lavoro, raro ma in crescita, si inserisce in un terreno fertile?
“No se pensiamo che il 93% delle donne non denuncia. Se non cambia l’approccio legislativo, non è facile che le denunce crescano. Se, per esempio, l’esito di esse fosse l’obbligo del trattamento, forse le cose cambierebbero”.
Dall’essere violenti, alla fine, se ne esce?
“Diciamo che i nostri sono interventi complessi e lunghi su un problema che ha caratteristiche simili alla tossicodipendenza e all’alcolismo. Non solo: i soggetti, in genere, all’iniziano minimizzano il problema, parlano di uno schiaffo, di una botta. Senza contare che il 40% di chi si rivolge a noi, alla fine non inizia nessun percorso. Percorso che non dura mai meno di un anno: dopo i primi tre mesi, in genere, si vedono già i primi risultati sulla violenza fisica, che si interrompe velocemente. Per il resto, ci vuole molto di più”.
E i figli, in tutto questo, che parte hanno?
“I figli sono sempre testimoni, sia che assistano con i loro occhi alla violenza, sia che respirino solo il clima di tensione e intimidazione che c’è in casa. Nel caso di Firenze posso dire che violenze dirette sui bambini riguardano pochissimi casi. Notiamo, d’altro canto, un desiderio autentico degli uomini di essere dei padri adeguati”.