Mamma, italiana, musulmana. La storia di Marisa: “Il velo? Purtroppo fa paura”

Marisa Iannucci

Quando lo scorso anno la maestra di suo figlio le ha spiegato che il bambino in classe non parlava ma che succede spesso a chi a casa impara solo un’altra lingua, le gambe le sono diventate di gelatina: il piccolo Omar Farouk sa solo l’italiano. Quando in ospedale l’hanno messa in stanza con una nigeriana (non perché le dispiacesse), ha capito di nuovo di essere stata scambiata per una straniera. Marisa Iannucci, invece, è italianissima. Di Ravenna, per l’esattezza. L’unica particolarità, se così vogliamo chiamarla, è che porta il velo. Per lei, da ragazza, non c’è stata una vera conversione all’Islam. Alla religione musulmana si è avvicinata piano piano, a partire dalla tesi sulla moschea di Roma all’Accademia di Belle Arti.
Marisa, dopo un’educazione cattolica, che cosa è scattato in te?
“Il mio è stato un percorso lento, graduale. Tutto è iniziato da un interesse culturale verso il mondo islamico e la lingua araba. Poco a poco ho scelto di approfondirlo sia a livello universitario, visto che ho studiato anche Lettere all’Orientale di Napoli, sia avvicinandomi alle comunità musulmane, soprattutto a Bergamo, dove ho lavorato come insegnante”.
Non c’è stata una data nella quale sei passata ufficialmente all’Islam?
“No, non ho mai avvertito un prima e un dopo. Certo, c’è stato un giorno in cui ho fatto la testimonianza di fede davanti ad un fratello ma non mi ricordo di preciso quale. Sono passati una ventina d’anni, oggi ne ho 43”.
Come la prese la tua famiglia?
“All’inizio male, ho avuto un’educazione cattolica, ho ricevuto i sacramenti fino alla cresima. Ma poi mi sono disinteressata. Sono una persona anarchica, non amo le regole. L’Islam non ha un clero, non ha gerarchie. Questo mi ha affascinata da subito”.
Eppure, da fuori, si ha un’immagine diversa…
“Lo so. Si pensa ad una religione dogmatica, oscurantista. E si percepisce il velo come il simbolo della sottomissione della donna all’uomo. Non è sempre così: certo, prima di cominciare ad indossarlo l’ho voluto elaborare e interiorizzare. Il velo ha a che fare con il rapporto che noi donne abbiamo con il nostro corpo, con la relazioni che instauriamo con gli altri. Ma oggi fa parte di me”.
Una volta tornata a Ravenna, che clima hai trovato?
“Ho perso quasi tutte le amicizie, purtroppo: anche chi si mostrava apparentemente più aperto di mente, si è allontanato. Andare a prendere un caffè con una persona velata per molti è ancora un problema. Senza contare il clima di islamofobia che ho vissuto dopo l’11 settembre. Lo si percepiva con mano. Oggi quella paura è più sottile, più subdola: le persone l’hanno interiorizzata ma circola ancora, io la avverto. Non va dimenticata”.
Eppure sei una persona pubblica, sei stata tra le fondatrici del centro ‘La Scaletta”, la prima moschea di Ravenna. E presiedi l’associazione di donne Life Onlus…
“Ma il velo fa ostacolo. Faccio ricerca, scrivo libri, sono impegnata nella mediazione culturale e nel volontariato. Ma sono senza un lavoro effettivo: la ricerca di un’occupazione è ostica. Lo scorso anno, insieme al sociologo Giancarlo Dall’Ara abbiamo realizzato la ricerca ‘Donne in cammino’: sono state intervistate dodici donne di religione islamica, la metà italiane e la metà straniere, tutte velate. Leggendola, sono rimasta scioccata da quanto spazio le donne abbiano dato, nelle loro testimonianze, al racconto della sofferenza per il fatto di non essere accettate, di non riuscire a trovare una collocazione nella società”.
Come si combattono i pregiudizi?
“Ognuno deve seminare nel piccolo terreno intorno a sé. Io, per esempio, sono impegnata nella scuola. Proprio ieri, al liceo classico di Ravenna, abbiamo proiettato in anteprima il documentario di Fabrizio Fantini ‘Behind islam doors” sulla comunità islamica di Bologna e Ravenna. Il 30 maggio, probabilmente al Mar, verrà presentato alla città”.
I ragazzi sono scettici o curiosi, quando li incontrate?
“In genere arrivano con le classiche domande sul terrorismo e sull’Islam. Poi, quando ci sentono parlare, il dibattito si fa stimolante: sono curiosi, pronti a cambiare idea, elastici. Il nostro scopo è che sviluppino un pensiero critico, che non si bevano tutto ciò che viene loro propinato”.
Da mamma di Omar Farouk, quattro anni e mezzo, non temi che tuo figlio possa essere discriminato?
“Certo ma credo molta nella serenità che io e mio marito gli trasmettiamo e sono ottimista rispetto ai cambiamenti che la società potrà fare. Omar va a scuola, in famiglia festeggiamo sia il Natale, invitando i miei genitori, che l’Aid al Fitr alla fine del Ramadhan. Siamo stati alla festa della comunione di mio nipote. Sta crescendo in un ambiente multiculturale. Essendo musulmana, mi auguro che da grande si avvicini al mio credo ma sarà una sua scelta”.
Per ora, che cosa gli avete spiegato?
“Pensiamo sia troppo piccolo. Quella che vede è la sua normalità, incontrare donne col velo o senza fa parte del suo quotidiano. A scuola non mangia carne di maiale ma non fa domande, è abituato così. Non si spaventa se in aeroporto c’è una donna con il chador, anzi si avvicina per parlarle, visto quanto è socievole”.
Ti è capitato di essere vista come diversa anche in relazione al tuo vivere la maternità?
“Io per fare la mamma ho chiuso il mio laboratorio di mosaico. Mio marito, cittadino italiano di origine algerina, è ingegnere ed è spesso fuori per lavoro. Ho allattato Omar Farouk fino all’età di due anni e mezzo: per questo sono stata criticata. Mi hanno detto che mio figlio sarebbe diventato un mammone. Invece è molto autonomo”.
Da mamma impegnata, trovi sempre il tempo per la preghiera cinque volte al giorno?
“Sì, è questione di pochi minuti. Il tempo, se uno vuole, lo trova. Così come, con grandi salti mortali, trovo sempre il modo di studiare. Il 20 marzo mi laureo di nuovo, qui a Ravenna. Sono una persona normale, la vita che conduco è molto comune. Anche se è difficile farlo capire alla gente”.

In questo articolo ci sono 4 commenti

Commenti:

  1. Potremo applaudire alla conversione di una nostra concittadina all’Islam soltanto quando le comunità’ musulmane accetteranno che un loro membro si converta al Cristianesimo, o abbandoni la loro religioni. La mancanza di reciprocità’, prima che la violenza, e’ la ragione per cui non possiamo accettare che l’Islam si propaghi in Italia. L’atto di libertà’ della signora Iannucci – che in quanto liberali noi tolleriamo – sara’ invece interdetto a suo figlio, il quale non avrà’ la scelta di convertirsi al Cristianesimo. L’Islam non obbliga alla conversione, ma impedisce e punisce l’abbandono della religione. Dunque e’ liberticida.

Commenta

g