Atelieristi alla materna: guardate cosa fa Reggio Emilia. E invece a Ravenna non esistono più

Atelierista. La parola potrebbe far sobbalzare dalla sedia le persone che nel 2008 vennero assunte dal Comune di Ravenna per portare progetti grafico-espressivi, musicali e multimediali all’interno delle scuole dell’infanzia. E che dopo due anni, a graduatoria scaduta, si sono trovate con le mani in mano. Ebbene sì, perché la figura dell’atelierista, così come è stata introdotta, altrettanto velocemente è stata eliminata. Ma a poche centinaia di chilometri da qui, a Reggio Emilia, l’atelierista è importante quanto l’insegnante. E al mega convegno “educazione e/è politica” in programma da oggi a domenica 23 febbraio se ne parlerà eccome. Ma cosa fa, davvero, un atelerista? A che cosa serve? Perché è importante per l’educazione dei nostri bambini? Lo abbiamo chiesto a Mirella Ruozzi dell’Istituzione nidi e scuole dell’infanzia del Comune di Reggio Emilia: 39 anni da atelierista, di cui gli ultimi dieci da formatrice.
Mirella, a Ravenna gli atelieristi sono esistiti per un brevissimo periodo: da voi, invece?
“Da noi esistono da quando sono nate le scuole dell’infanzia comunali, nel 1963. Loris Malaguzzi ebbe un’intuizione eversiva e anticipatrice dei tempi: credeva nella necessità di creare una scuola nuova nella quale il bambino non fosse soltanto curato ma messo in grado di fare. Da allora, nei nostri servizi, lo sguardo pedagogico dell’insegnante e quello artistico dell’atelierista dialogano incessantemente per aumentare le potenzialità dei bambini, per fare scattare in loro un pensiero creativo e divergente”.
Che cosa porta, l’atelierista, all’interno delle classi?

La “piazza” della scuola comunale dell’infanzia Ernesto Balducci di Reggio Emilia

“Tecniche e materiali nuovi che smuovono non solo le mani, ma anche le teste di grandi e piccini. L’atelierista non è all’interno della scuola come uno specialista estraneo a tutto il resto, si intreccia con il lavoro del personale insegnante, può tenere la classe. Ha solo una formazione diversa, viene dal liceo artistico, dall’Acccademia di belle arti. Ma è integrato a pieno titolo nella vita della scuola”.
Il Comune di Reggio quanti ne ha, al momento, di assunti?
“Uno per ogni scuola dell’infanzia, in tutto 22, ai quali se ne aggiungono quattro che lavorano al “Raggio di luce” del centro internazionale ‘Loris Malaguzzi’. Otto di loro sono uomini”.
Ogni scuola, in sostanza, nella propria struttura ha un atelier?
“Abbiamo superato dalla fine degli anni Settanta l’idea dell’atelier unico, passando ai mini-atelier. Li abbiamo moltiplicati nella convinzione che fosse più indicato dar vita a tanti spazi, tanti laboratori, per sviluppare i famosi 100 linguaggi. A me piace dire che l’atelier è in tutta la scuola. Anche i nostri tredici nidi, inoltre, ne dispongono”.
In Italia non ci sono esperienze simili?
“Cito sempre Torino, che aveva allestito dei laboratori di quartiere molto interessanti. Ma restavano luoghi esterni alla scuola: i bambini, così, li vivono come un’esperienza altra, straordinaria, esterna. Noi, invece, vogliamo che lo sviluppo dei linguaggi artistico sia per loro pane quotidiano”.
Che orario di lavoro seguono gli atelieristi?
“Lo stesso degli insegnanti: 36 ore settimanali. Anche questo sottolinea il valore che il Comune di Reggio riconosce loro”.
Com’è possibile che nonostante la moltissima formazione che fate in Italia e all’estero, altre realtà non prendano ispirazione?
“In parte è una questione di risorse. E poi non è facile: non si tratta di copiarci, ma di reinterpretarci. In ogni caso, all’estero è più frequente trovare esperienze simili: quando riceviamo gli operatori stranieri nei nostri servizi, restano esterrefatti dalla quantità d’arte che le nostre scuole sprigionano”.

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