Il gastronomo Pozzetto se la prende con i dietologi: “Troppa misura, poca cultura”

Graziano Pozzetto, cultore della tradizione gastronomica romagnola

Un piatto di tagliatelle accanto ad una bibita gassata. Non c’è orrore più grande, nell’alimentazione di un bambino, per un gastronomo come Graziano Pozzetto, reduce dalla pubblicazione del suo 25esimo libro, “Le cucine di Romagna” (Orme Editori). Un’occasione per prendersela, un po’ bonariamente ma molto sul serio, con i dietologi, a suo dire sempre più presenti nelle vite dei più piccoli.
Pozzetto, perché ce l’ha con i dietologi?
“Non nego il loro ruolo, sono convinto che lavorino con professionalità. Ma non conoscono le tradizioni, il territorio, i valori del cibo. Dominano in televisione e diventano interpreti di una cultura gastronomica della quale, invece, sono sprovvisti. Tra un prodotto allevato e uno che cresce in natura, preferiscono il primo. Io mi batto da sempre per codificare e tutelare la miglior tradizione di questa terra, la Romagna”.
Lei com’è cresciuto?
“Se come me mangi per vent’anni i piatti della mamma, quelli che lei ti ha preparato con amore, che ti hanno fatto stare bene, li andrai a ricercare per tutta la vita. Lo diceva Tonino Guerra, mica uno a caso. Poi non nego che io, a 72 anni, ho il diabete e se fin da piccolo avessi avuto anche nozioni di dietetica, forse ora starei meglio. Ma non bastano”.
Rivendicare per tutti un’alimentazione legata al territorio e svincolata da ogni logica industriale, però, è abbastanza anti-storico…
“Io provo pena per le nuove generazioni, che crescono tra pubblicità ingannevoli e prodotti industriali. Quando vedo una pasta asciutta accanto ad un beveraggio americano, inorridisco. Ritengo sia un abbinamento stomachevole e ignobile. Quello che critico è legato a mercato mondiali, grosse industrie e grossi investimenti: sono consapevole che nel 2013 occupazione, economia e tecnologie siano importanti ma il risultato finale, a livello di profumi e sapori, è disastroso”.
Un grano che arriva dal Canada per lei è un tradimento?
“Sì, così come le carni che arrivano dall’Argentina e che vengono spacciate per nostrane. Quando vado a fare la spesa al supermercato di San Pietro in Vincoli ho rispetto per quegli anziani che acquistano ciò che costa meno ma la vivo con tristezza. Un mio amico, artigiano in pensione, per motivi economici è costretto a bere il vino confezionato nei brik: mi dice spesso che il degrado nella qualità della sua vita lui lo vede impersonato lì, in quel tetrapak”.
Ma siamo sicuri che ciò che è tradizionale faccia per forza bene alla salute?
“Al processo del maiale, a San Mauro Pascoli, ho stroncato un dietologo. Un animale di 18 mesi di vita, cresciuto allo stato semi-brado con un’alimentazione tradizionale non ha bisogno di conservanti né di additivi. E ha una carne che è una meraviglia. Questi nodi, i dietologi, non li sciolgono. E diventano così i sacerdoti di uno stile alimentare che esalta la divisione, la misura, il bilanciamento”.
Lei che cosa darebbe a colazione, pranzo e cena ad un bambino di sei anni, per esempio?
“A colazione una buona ciambella intinta nel caffellatte. E poi il pane di un bravo fornaio, la carne di un bravo macellaio, ortaggi e frutta cresciuti nell’orto, formaggi, confetture fatte in casa. Non sono uno snob, questi sono alimenti semplici. Pensiamo al miele: mio figlio è cresciuto con chili di miele, in Romagna abbiamo i migliori mieli al mondo. E perdiamo tempo dietro allo zucchero di canna”.
Non salva nulla, dell’industria?
“Certi latti sono ottimi, e si trova anche del validissimo parmigiano. Bisogna stare in occhio, conoscere e scegliere”.
Il pesce è contemplato?
“I dietologi raccomandano quello d’allevamento, io no. Qualche sera fa ad una cena mi hanno cucinato del sardone fresco di giornata con una spolverata di farina di polenta, cotto sulla graticola. Io avevo portato dal pane di montagna, fatto con cereali antichi macinati al mulino, impastato con il lievito madre e poi cotto nel forno a legna. Che meraviglia: non sono mica fighetto, mi interessa la gente comune”.

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