L’ha detto a chiare lettere la settimana scorsa il primario di Ginecologia e Ostetricia all’ospedale di Forlì Claudio Bertellini: rimandare troppo la maternità espone le donne ad un alto rischio di non riuscire a diventare mamme, una volta che decidono di provarci.
E c’è chi, per non esporsi troppo al pericolo, si premunisce. Oltre 500 donne in Italia hanno scelto di ricorrere al “social egg freezing”, l’intervento che consente di conservare – attraverso il congelamento gli ovociti – con l’idea di utilizzarli solo più avanti. Per farlo, si fa quello che in genere succede all’inizio di un ciclo di procreazione medicalmente assistita: ci si sottopone, cioè, ad una stimolazione ovarica, prima con punture sottocutanee e poi monitorate in ospedale. Quando i follicoli sono pronti vengono prelevati con un piccolo intervento e subito congelati.
E la legge 40, con tutte le sue restrizioni? In questo caso no problem: gli ovociti non sono fecondati e il social freezing ha semaforo verde. Meno sul fronte economico, forse, visto che costa tra i 2mila e i 3mila euro, cifra alla quale va aggiunta una “tassa” di 200/300 euro all’anno per il deposito. La scelta è possibile in maniera abbastanza omogenea sul territorio nazionale, visto che la crioconservazione degli ovociti si effettua in 121 centri, metà pubblici e metà privati.
All’estero il social freezing è più diffuso che da noi, dove le donne sono informate di averne la possibilità fin da giovani. Diverso in Italia, dove chi decide di congelare gli ovociti è in genere già in un’età a rischio fallimento sul fronte maternità. Peccato, visto che le possibilità future di fecondazione restano inesorabilmente legate all’età della donna.
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