Quando un bambino le chiede perché ha grosse cicatrici sulle braccia, non dice bugie. Con parole semplici racconta che quei tagli se li faceva lei, da ragazzina. Anche a sua figlia, che ha tre anni e mezzo, dice sempre la verità: le ha disegnato anche un piccolo libro, perché sia più facile capire. Alice Banfi, 34 anni, oggi pittrice e scrittrice (con Stampa Alternativa ha pubblicato “Tanto scappo lo stesso. Romanzo di una matta” e “Sottovuoto. Romanzo psichiatrico”), ha sofferto per anni di disturbo di personalità Borderline. Lunedì alle 10 lascerà Camogli, dove vive, e arriverà alla facoltà di Psicologia di Cesena per raccontarlo agli studenti di quarta e quinta superiore.
Alice, com’è spiegare ai ragazzi un concetto stereotipato come quello di “matto”?
“Più semplice di quanto possa sembrare. Ricordo ancora un incontro al Virgilio di Milano. Sarà che sono sempre me stessa, che provo a mettermi nei panni della loro età, fatto sta che le loro domande sono sempre sincere, spontanee, pulite e molto più acute di quelle che farebbe un professore”.
Non dev’essere altrettanto facile, invece, raccontare che cosa si intende per Borderline…
“Non lo è. Dico sempre che è un disturbo emotivo, comportamentale e cognitivo. Le persone che ne soffrono hanno un’intelligenza pari a quella degli altri, solo che i traumi subiti e i vuoti d’amore le portano a dare risposte che le distruggono. Io probabilmente ho iniziato a soffrirne da piccola, quando i miei genitori notavano quanto fossi una bambina nervosa, disattenta, agitata”.
Quando è arrivato il primo ricovero?
“Avevo 18 anni, alternavo la scuola al day hospital. Sono andata avanti così per dieci anni. Se dovessi dire qual è il ricordo peggiore, la mente andrebbe alla contenzione. Essere legata mani e piedi al letto è qualcosa che non si dimentica. Ma allo stesso tempo era quello che mi teneva in vita perché avevo un motivo per combattere. L’inferno non erano i lacci ma il mio dolore e l’idea che non sarei mai stata una persona normale”.
La tua famiglia come reagì?
“Venne risucchiata, il dolore tiene in ostaggio tutte le famiglie, che per paura della morte e della distruzione ma anche per il timore di quello che sarebbe potuto succedere a casa, si fidano dei medici”.
In quel mare di solitudine, come ti sentivi?

“Sono una battagliera per carattere e con tutto il casino che facevo le ipotesi erano due: o sarei morta o ne sarei uscita. Una grossa spinta me l’hanno data i due anni e mezzo nella comunità psichiatrica di Moncalieri. Lì si faceva davvero un grosso lavoro, che purtroppo s’interrompeva non appena ricominciavano i ricoveri. Lì il senso di ingiustizia, che già accompagna il disturbo Borderline di suo, veniva amplificato. Di reparti di psichiatria validi ce ne sono ben pochi”.
C’è stato allora un momento in cui ti sei accorta che la via d’uscita era vicina?
“Quando ho pubblicato il primo libro e ho iniziato a girare per dare la mia testimonianza ho iniziato a stare meglio. Ero riconosciuta come voce a cui dare credito e questo mi ha ridato un certo equilibrio. Le crisi e i momenti di sconforto, però, ogni tanto si ripresentavano. La vera guarigione è arrivata con la nascita di mia figlia”.
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