Partoanalgesia, Massimo Innamorato: «Così ho vinto la mia battaglia di civiltà»

«La sala parto mi manca, così come mi mancano l’emotività che ruota intorno al travaglio e la nascita». Massimo Innamorato, direttore dell’Unità operativa complessa di Terapia antalgica degli ospedali di Ravenna, Faenza e Lugo, dal primo febbraio dello scorso anno ha lasciato il servizio di partoanalgesia che aveva implementato a partire dal 2007/2008 al «Santa Maria delle Croci». Una sfida culturale che oggi, guardandosi indietro, è contento di aver accettato di affrontare.

«Quando mi venne dato l’incarico, la situazione a livello nazionale era a macchia di leopardo. Non avevo mai pensato, prima di allora, che mi sarei un giorno occupato di future mamme. Venivo dalla rianimazione pura, avevo alle spalle quasi 5mila procedure di anestesia regionale, 3mila di anestesia generale e 450 interventi in elicottero. Per essere all’altezza, mi sono allora formato con Danilo Celleno, un luminare in materia. Ma quello dell’epidurale era ancora un campo spinoso: io, uomo, andavo a occupare un campo al femminile, dove le ostetriche mi guardavano storto, disabituate del tutto a pensare che si potesse togliere la dimensione del dolore dal concetto stesso di parto».

Anche le donne che frequentavano i corsi di accompagnamento alla nascita, all’inizio, erano scettiche: «Chi ero io, che arrivavo in aula magna a dire che sì, si poteva partorire con l’analgesia, che non avrebbe fatto male al bambino e che non avrebbe rallentato le contrazioni, come ancora oggi spesso si sente dire? Per farle desistere, girava la voce che l’epidurale fosse a pagamento, quando io non ho mai preso un centesimo per averne fatta una. Poco a poco, però, le cose sono cambiate. Ho preso per mano le ostetriche e loro hanno preso per mano me, facendomi conoscere la gravidanza e la gestione del travaglio, di cui non mi ero mai occupato. Scoprire la nascita è stato bellissimo, sfondare i muri e i pregiudizi pure. Ho creato un manuale per le donne che spiegava bene cosa fosse l’analgesia nel parto e siamo così passati, nel giro di qualche anno, da un centinaio di analgesie all’anno a oltre 550. Le partorienti arrivavano da Imola, da Ferrara, da Cesena».

Padre di due ragazzi di 22 e 20 anni e di una bambina di 11 nati tutti con l’analgesia, Innamorato ha sempre messo al primo posto il miglioramento della qualità del parto delle donne: «Togliere il dolore ma permettere loro di sentire le contrazioni fa sì che non arrivino alla fase espulsiva esauste, col rischio di andare incontro a un cesareo. Oggi si partorisce spesso dopo i 35 anni, l’esaurimento muscolare è più rapido: l’analgesia agisce da miorilassante e quindi aiuta anche in questo senso, specie se il travaglio è stato indotto e il dolore è forte e improvviso. Ma il vero traguardo, al di là della tecnica, è stato conquistare le ostetriche. Avere loro dalla mia parte ha fatto, nel tempo, la differenza. E ha portato alle soddisfazioni più grandi».

Quando sente parlare di un ritorno alla naturalità del parto, specie da chi ne contesta una eccessiva medicalizzazione, Innamorato non ha dubbi che sia meglio non correre rischi: «Io non critico nessuno ma nel 2021, credo non ci si possa permettere di andare incontro a fenomeni come l’anossia o l’ipossia del bambino, con conseguenze severe gravi. Credo sia sempre meglio avere un medico a disposizione, in caso di problemi. Io ho fatto questo mestiere come atto di amore verso le persone, convinto che la medicina sia proprio mettersi a disposizione per migliorare la vita della gente, un aspetto che nessuna università potrà mai insegnare. Oggi, nella mia nuova veste di terapista antalgico, quando inserisco uno stimolatore midollare nella colonna vertebrale di un paziente, ho tecnicamente effettuato una procedura complessa. Ma è molto più bello quando lo stesso paziente, che la prima volta era entrato in ospedale in carrozzina, torna con le proprie gambe, bussa alla tua porta e ti ringrazia per quello che hai fatto. Con le donne che stavano per diventare mamme è stato uguale. Quando lo scorso anno ho lasciato il servizio di partoanalgesia, ginecologi e ostetriche mi hanno mandato delle mail dense di riconoscimento. La mia è stata una battaglia di civiltà, sono felice di averla vinta».

 

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