“Ho perso mia figlia a 39 settimane, ecco come si accolgono le coppie che vivono il lutto perinatale”

«Oggi, per fortuna, si tende a non cercare di consolare le coppie dicendo che tanto sono giovani e ci riproveranno. E non si impedisce più alle mamme e ai papà di vedere il neonato. Molto, in questi anni, è stato seminato. C’è ancora, però, da lavorare»Katia Andreoli, ostetrica all’ospedale di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, tredici anni fa ha perso la sua bambina alla 39esima settimana di gravidanza. La sua esperienza personale, che si somma a quella professionale, l’ha portata nel tempo ad approfondire il tema del lutto perinatale e a impegnarsi perché anche all’interno della sua Asl di riferimento ci sia sempre una maggiore attenzione alla materia.

Argomento di cui parlerà il 30 gennaio Bologna durante il convegno “Mortalità perinatale in Emilia-Romagna”, nel quale verrà presentato il report quinquennale del progetto di sorveglianza regionale sulla natimortalità (qui i dettagli).
“Quando è toccato a me vivere quella situazione – racconta Andreoli – sono stata trattata come credo che le donne vadano trattate. Non sono stata lasciata sola, mi è stato consentito di rimanere tutto il giorno con mio figlia dopo averla partorita. Insomma, ho sentito intorno a me tanta umanità. Dopo un po’ di tempo, mi sono messa ad approfondire, percorso in cui mi ha molto aiutata l’associazione Ciao Lapo fondata da Claudia Ravaldi: nel tempo, è stato naturale essere individuata, tra i colleghi, come la persona più adatta a gestire il problema. Oggi, non a caso, tengo le fila dei punti nascita di Reggio per il ripristino della memory box per le famiglie che perdono un figlio prima della fine della gravidanza. Si tratta di una scatola, consegnata alle coppie dalle ostetriche che le hanno assistite, che contiene una copertina, un cappellino, un pupazzetto, un libricino dei ricordi con una ciocca di capelli del bimbo e l’impronta del piedino. Cose impensabili in passato ma che oggi sappiamo, anche grazie alla letteratura, che siano importantissime come punto di partenza per iniziare a elaborare il lutto”.
Il fatto stesso di vedere il proprio bimbo, anche se non più in vita, oggi è assodato che sia un passo fondamentale verso l’accettazione: “Durante la gravidanza, che duri sei o nove mesi, immaginiamo il nostro bambino, al quale dobbiamo prima o poi dare un’identificazione. Vederlo significa concretizzare quell’immaginario. Non farlo significa privarsi di un pezzo, significa quindi complicare il percorso difficile dell’elaborazione”. Quando poi, nel tempo, ad Andreoli è capitato di incontrare coppie che stavano per vivere o stavano vivendo quello stesso lutto, la sua vicenda privata è stata d’aiuto: “Ricordo una coppia che rifiutava di vedere il bambino. Io consigliai loro, invece, di farlo. Mi fecero poi sapere, dopo avere seguito il mio consiglio, che avevano capito come dietro la maschera della professionista ci fosse un vissuto mio personale. In generale, il riscontro che abbiamo dai genitori che decidono di fare il passo è buono: nessuno ha mai pensato di aver sbagliato. In questo, la stessa associazione Ciao Lapo ci sta dando lo stesso feedback”.

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