
“Vorrei condividere con tanti altri professionisti questa mia esperienza speciale, lancerei la chiamata: cercansi persone caparbie e desiderose di diffondere questo nuovo orientamento”. Fulvia Signani, psicologa dell’Azienda Sanitaria di Ferrara e docente di Promozione della salute all’Università di Ferrara, è anche una delle poche esperte di medicina e psicologia di genere. Temi ancora poco sviluppati in Italia, sui quali ha scritto un libro “La salute su misura. Medicina di genere non è medicina delle donne” (Este Edition), rivendicando poi in un successivo “Salute Bene Comune” (Volta La Carta) la dignità del “genere” come fattore che determina la salute. Dopo avere lavorato per anni nei consultori, la suggestione le è arrivata da un gruppo di colleghe tedesche che già lavoravano in quella direzione.
La medicina di genere ha a che fare con la medicina che si occupa dei problemi sessuali e riproduttivi della donna?
“Sono livelli diversi di applicazione. La medicina di genere è un orientamento che fa sì che, quando si fa una diagnosi o si somministra una cura, si tenga in considerazione il fatto che tra uomo e donna esistono differenze sessuali, legate non solo alla sfera riproduttiva. Esistono, infati, diversità date dal ruolo che la persona riveste nella società o percepisce di avere. Abbiamo ormai a disposizione numerose pubblicazioni scientifiche che lo confermano”.
Facciamo alcuni esempi?
“I sintomi dell’inizio di un infarto sono un esempio classico, anche perché la medicina di genere è partita dalla cardiologia. All’inizio di un infarto, l’uomo in genere ha un intenso dolore al petto, che si irradia al braccio sinistro. La donna, invece, ha sintomi più aspecifici: dolori nella parte alta destra della schiena, allo stomaco, alla mandibola, pressioni al petto, facilmente confondibili con l’inizio di un’influenza o con una crisi d’ansia. Questo causa ritardi nella diagnosi di patologia cardiaca nelle donne, con conseguenze che possiamo immaginare. Un altro esempio riguarda più l’aspetto psicologico: quando a un uomo viene comunicata una diagnosi di tumore, in genere risponde ‘come farò?’. La donna, invece, reagisce con un ‘come faranno?’, con il pensiero rivolto alla famiglia, marito, figli, anziani, casa”.
Del resto le donne, almeno in Italia, sono quelle che assolvono maggiormente ai compiti di cura…
“Le donne italiane, più di altre, si auto-attribuiscono il ruolo di caregiver, molto pressate dalle aspettative degli altri. E così facendo, finiscono in situazioni intrappolanti nelle quali rischiano, specie quando stanno accanto a persone con malattie croniche, di diventare esse stesse pazienti, di patologie sia fisiche che psicologiche. Mi sembra emblematico che negli ambulatori di controllo delle patologie quali per esempio diabete o ipertensione, spesso gli uomini arrivino accompagnati da una figura femminile, moglie, sorella, figlia o badante: sono queste ultime a tenere in borsa la documentazione sanitaria dell’uomo. Quella borsa rappresenta metaforicamente il peso di genere che grava sulle donne “.
Qualcosa si sta muovendo verso l’affermazione dell’orientamento al genere nella diagnosi e cura?
“Negli ultimi tempi sono stati fatti tre passi avanti importanti. La Deputata ferrarese Paola Boldrini ha depositato alla Camera la proposta di legge 3603 per la diffusione e l’applicazione della medicina di genere, che ho avuto l’onore di contribuire a scrivere. Sull’onda della proposta di legge, Boldrini ha coinvolto la Conferenza nazionale dei Presidi di Medicina e ottenuto l’adesione di 59 università italiane al progetto pilota di avvio di orientamento al genere negli insegnamenti di questa prima facoltà dal prossimo anno accademico. I nuovi medici partiranno, così, già formati a quest’orientamento e si stanno concordando estensioni del progetto anche alle altre professioni sanitarie. L’altra novità è che la prossima settimana l’Istituto superiore di sanità presenterà il primo Centro nazionale di riferimento della medicina di genere, a riconoscimento della validità scientifica dell’orientamento. Un’azione forte e meritoria, che contribuirà a convincere anche i professionisti più riottosi”.
Qual è la sfida di questa innovazione?
“Quella culturale. Degli oltre 600mila operatori della sanità pubblica in Italia, nessuno si è formato sui banchi di scuola in quest’ottica. Esiste qualche caso ancora isolato di formazione agli operatori attivi, per esempio a Ferrara da otto anni teniamo seminari e abbiamo allestito una formazione a distanza che ha coinvolto, tra tutto, oltre 1500 operatori. Se la legge viene approvata, l’attenzione al genere viene messa a sistema, oltre che riconosciuta come doverosa. Verrà superata l’idea di essere orientati al genere solo se ci si occupa di salute sessuale e riproduttiva, ma verranno considerati tutti gli organi e i funzionamenti del corpo, con il metodo che mette a confronto, per esempio, come funzionano il fegato dell’uomo e della donna, i reni, il sistema endocrinologico, la capacità di adattamento alle malattie. In particolare, come prevede anche il Disegno di legge Lorenzin ora in discussione, le ricerche, specie quelle farmacologiche, dovranno considerare campioni di ricerca paritetici tra uomini e donne (ora al massimo raggiungono il 30% di donne). Sarebbe e sarà un segno di innovazione diffusa, unico nel panorama europeo, in un servizio sanitario pubblico che molti ci invidiano ma che noi, con l’indole che caratterizza il nostro popolo, non sempre riusciamo a valorizzare”.
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