Ritrovare autostima e fiducia in se stessa, per Giorgia (nome di fantasia), cinquantenne della provincia di Ravenna, non è stato semplice. All’università, dove adesso lavora in seguito a una vera e propria batosta professionale post-maternità, ci sono voluti mesi e mesi per tornare a credere di essere all’altezza del ruolo. Perché il mobbing di cui è stata vittima da parte dei suoi ex datori di lavoro non l’ha solo portata a perdere il posto che ricopriva da tre anni a tempo indeterminato. Il danno peggiore è stato infatti sul versante psicologico: “Dopo che ti trattano come un’incapace, dopo che fanno di tutto per sbarazzarti di te, cominci davvero a pensare di non valere nulla”.
Giorgia ha un bimbo di cinque anni e mezzo. Responsabile di un laboratorio di analisi ambientali, quando resta incinta riceve messaggi d’affetto dai suoi superiori. Al terzo mese di gravidanza, in seguito a una minaccia d’aborto, è costretta a rimanere a casa: “Ma ho dato subito la mia disponibilità a collaborare da casa, soprattutto in vista di una scadenza particolare che tenevo a rispettare e che non avrebbe richiesto la mia presenza fisica. I miei datori di lavoro, però, hanno detto di starmene tranquilla, di godermi la gestazione perché ci avrebbero pensato loro”.
Giorgia partorisce in maggio e in agosto – in piena maternità obbligatoria – riceve una lettera scritta dall’avvocato dei suoi capi nella quale si dice che ha fallito un obiettivo strategico: “In pratica mi si contestava di avere creato problemi nel periodo in cui, essendo in maternità a rischio, ero assente. Un vero paradosso da cui ho cercato di difendermi contattando io stessa un avvocato, che mi ha consigliato di rientrare prima che mio figlio compisse un anno”. Ma quando Giorgia rientra, trova una situazione agghiacciante: “Con la scusa che ero in allattamento, mi hanno tenuta lontano dal laboratorio, dove avevo la responsabilità di una decina di persone, relegandomi in una stanza senza telefono né computer a spuntare fatture con la matita. Un demansionamento totale che faceva parte di un piano strategico per farmi fuori: ho infatti trovato le mail dell’avvocato dei miei superiori che consigliava loro come muoversi per mandarmi via”.
Prima che la situazione si faccia troppo pesante, Giorgia viene a sapere da un suo ex professore che all’università è imminente un concorso per un contratto triennale. Pur di partecipare, dopo settimane e settimane di ferie e permessi forzati manda la lettera di dimissioni che, per ironia, viene spedita lo stesso giorno in cui riceve quella di licenziamento. Finiscono, così, tre mesi da incubo. Fino a che Giorgia decide di andare per le vie legali. Una partita altrettanto pesante: “Ho retto per tre udienze in tutto – racconta – ma poi non ce l’ho più fatta. Lo stress era a i massimi livelli, piangevo ogni volta, ho addirittura perso il latte. A guardare i miei ex datori di lavoro mi sentivo aggredita e presa in giro. Uno dei soci, in tribunale, è arrivato a dirmi che, nonostante tutto, saremmo potuti restare amici. Cose dell’altro mondo”. Giorgia, per liberarsi, decide di accettare 15mila euro: “Se avessi avuto pazienza, ne avrei potuti prendere fino a quattro o cinque volte di più. Ma per me, due o tre anni in quelle condizioni, erano davvero troppo da sopportare”.
Sono passati più di quattro anni e molte cose sono cambiate nella vita di Giorgia: “Oggi ho un lavoro precario, navigo a vista. Mi sono dovuta rifare le ossa daccapo, in un ambiente stimolante ma che, al momento, non mi dà certezze rispetto al futuro. Avevo un ottimo contratto e un buonissimo stipendio. Avevo lasciato il mio precedente lavoro perché, nell’azienda che poi mi ha eliminata, mi avevano fortemente voluta. La mia colpa è stata fare un figlio”.
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Commenti:
Conosco Giorgia, quella vera che è il simbolo di molte altre che come lei hanno scelto la famiglia. Ed hanno fatto bene. Con coraggio, forza e dolore.
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