
Quando Serenella Antoniazzi risponde al telefono, si sentono in sottofondo i rumori dei macchinari dell’Aga, l’azienda di famiglia in provincia di Venezia in cui lavora da 31 anni. Dal punto in cui termina il suo libro “Io non voglio fallire. Un’imprenditrice in lotta per salvare la propria azienda” (scritto con Elisa Cozzarini per nuovaedimensione) a oggi, sono passati sette mesi: sette mesi durante i quali un altro cliente ha chiuso i battenti, la lotta per tenere aperta la ditta di levigatura del legno è andata avanti ora dopo ora, il terrore dei mancati pagamenti l’ha assalita quanto prima, se non di più. Il caso di Serenella ha fatto molto discutere: quando la lettera in cui sfogava la sua rabbia di imprenditrice schiacciata da un sistema in cui è quasi impossibile restare a galla è stata ripresa dal quotidiano “La Repubblica”, apriti cielo: i piccoli come lei hanno iniziato scriverle, a condividere il senso di fallimento e la paura. Un’eco esplosa dopo la pubblicazione del libro: “Sapessi quanti uomini tra i cinquanta e i sessanta vengono alle mie presentazioni”.
Lei, di anni, ne ha 47. La sua storia affonda le radici nel capannone costruito da suo padre, dove a sedici anni indossa la tuta da operaia e inizia a lavorare. E dove, a un tratto, inizia a intravedere un cambio epocale, generazionale: “A un tratto gli ex contadini sono diventati artigiani, poi piccoli imprenditori. Alcuni hanno fatto la scalata, innalzando il livello dei prodotti e provando a fare business, oltre che impresa. I rapporti umani, piano piano, sono venuti a mancare, le fatture hanno iniziato ad arrivare via mail, poi è sopraggiunto l’homebanking”. Serenella, però, è cresciuta in una realtà dove le persone non sono un numero ma hanno ancora un valore e ai suoi dipendenti ha sempre dato un’importanza centrale: “I rapporti con il personale non sono mai rose e fiori, per carità. Le persone hanno famiglie da mantenere, a fine mese vogliono vedere lo stipendio. Ma io, davanti al commercialista che mi mostrava lo studio di settore e mi diceva di tagliare sui dipendenti, mi sono sentita morire. Adesso ho otto persone assunte, alcune sono venute a lavorare anche con cinque mesi di stipendi arretrati: quando penso al futuro dell’Aga, lo penso per me, per la mia famiglia ma anche e soprattutto per loro”.
La colpa di Serenella – lo scrive nel libro – è stata “credere negli uomini e nella giustizia”, pensare che il sacrificio di lavorare e lavorare ancora – come si faceva una volta – fosse la chiave di volta per non fallire. Invece no: i creditori che chiudono, le commesse che saltano, le banche che le chiedevano di rientrare. Un circolo vizioso, una catena impossibile da spezzare, che a un tratto ha portato Serenella sull’orlo del suicidio: “Un giorno, presa dall’esasperazione, mentre ero in autostrada ho pensato di farla finita andando a schiantarmi contro un camion. Mi ha salvata il cellulare che suonava senza tregua: dall’altra parte della linea c’era un imprenditore come me, uno che ha girato per molto tempo con la corda sotto il sedile della macchina e che mi ha detto di ricordarmi che sono una mamma, che così facendo non avrei dato alcuna possibilità a mio figlio”.
Alberto, 19 anni, ieri ha dato l’orale della maturità. Quando era piccolo, passava molto tempo con la nonna, visto che Serenella era sempre in azienda: “Quando quella chiamata mi ha trattenuta dal farla finita, mi sono passati davanti i momenti più belli della mia vita con mio figlio: la sua prima pappa, i dentini, i primi passi. E mi sono chiesta se ne fosse valsa la pena: ho sprecato un sacco di tempo per un lavoro che mi stava logorando e uccidendo, perdendomi alcune delle tappe fondamentali della crescita del mio bambino”. Alberto ha fatto qualche stagione estiva in azienda. L’anno scorso, invece, ha lavorato come bagnino. Esperienza che ripeterà nei prossimi mesi, con il brevetto in mano, quello che si è pagato da solo grazie alla paga guadagnata: “Quando ho iniziato ad avere problemi seri con l’Aga, pensava che la tensione in casa fosse legata a una crisi tra me e Loris, suo padre. Nel momento in cui la situazione è precipitata, gli abbiamo raccontato tutto, rendendolo partecipe di tutta la vicenda. A lui cerco di trasmettere il valore dell’istruzione, che è un’arma incredibile, al pari dell’umilità. E non smetterò mai di ripetergli che qualsiasi lavoro che ti dà da mangiare va considerato“.
Serenella, quando ha sentito di avere le spalle al muro, non ha esitato a chiedere aiuto a don Livio, il parroco di Concordia Sagittaria, che per qualche tempo le ha consegnato i pacchi viveri con i beni di prima necessità. Un’inversione di vita epocale per una abituata a strisciare il bancomat ogni volta che aveva voglia di comprarsi qualcosa. Un senso di vergogna sostituito poi dall’invenzione di escamotage per risparmiare e riuscire a rinunciare al superfluo: “Se all’inizio ho sofferto perché non potevamo più andare al ristorante a mangiare una pizza, poi mi sono organizzata: ho comprato il lievito e la pizza ho iniziato a impastarla a casa. Da lì le rinunce sono arrivate una dietro l’altra. Insegnandomi, forse, che di certe cose si può fare anche a meno”.
La dignità – anche attraverso il suo accorato libro – è il valore che Serenella ha cercato di mantenere saldo dentro di sé: “Non è stata la mia incapacità di gestire l’azienda a portarmi sull’orlo del baratro ma un sistema assurdo, che ti schiaccia e non ti fa rialzare”.
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