
La rivelazione arrivò nel 1997 in Romania, dov’era andata – controvoglia – al seguito del giornalista Mino Damato. Sally Galotti, allora ragazza in carriera che, a detta sua, si era montata la testa, dopo aver incontrato i bambini orfani malati di Aids, lascia il suo impiego alla Disney Company. Lo stesso che le dava uno stipendio da paura, che l’aveva fatta uscire dalle campagne forlivesi per fare il mestiere della vita grazie al talento e non alle raccomandazioni. Una scelta drastica di cui non si è mai pentita. Perché quel viaggio le ha cambiato la vita. E oggi che si occupa di umanizzazione pittorica degli ospedali – un marchio da lei inventato e depositato – sa che non potrebbe fare mestiere migliore. Qualche tempo fa, all’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, è stata inaugurata l’opera che rende più accogliente la sala d’aspetto del Pronto Soccorso. Ma Sally Galotti, alle soglie dei cinquant’anni, mamma di una bimba di sette, non lavora solo nell’ambito locale. Moltissimi gli ospedali d’Italia che la chiamano.
Su quali fronti è attiva, negli ultimi tempi?
“Al Mangiagalli di Milano ho lavorato nella stanza dove viene comunicato alle donne il tumore al seno: una stanza che prima era terribile. Sono stata anche in sala operatoria durante gli interventi di ago ispirato per provare a fare mio il disagio, lo stress e il dolore delle pazienti. In quella sala ho fatto un intervento con petali di rose e tinte sfumate allo scopo di rilassare, ammorbidire. Bisogna creare posti stupendi, posti più belli di casa propria, posti che raccontino la competenza dei medici, che invitino a fare prevenzione, che accolgano anche le mamme che, nonostante il tumore, scelgono di allattare. Possiamo davvero migliorarci la vita con poco”.
Il ministro Beatrice Lorenzin l’ha definita un’eccellenza italiana non solo per la qualità del disegno ma anche per la tecnica: in che senso?
“Quando ho iniziato questo percorso negli ospedali, imbrattavo i muri bianchi sterilizzati con pittura acrilica. Oggi è tutto diverso: stampo su pellicole lavabili, utilizzo colori ecologici. Non solo: ogni opera è studiata ad hoc in base al tipo di patologia. Al momento, per esempio, sto lavorando sulla fibrosi cistica, una malattia che colpisce bambini, adolescenti e adulti e per la quale mi serve un’opera trasversale alle età, per l’ospedale di Cesena. Per l’oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I, invece, ho studiato un’opera che tenesse in considerazione il fatto che i bambini, lì, subiscono trapianti e hanno quindi difese immunitarie molto basse”.
A questa esigenza si deve la collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna?
“La parte scientifica, nel mio lavoro, è importantissima. Lavoro con la professoressa Fiorella Monti perché voglio un affiancamento empirico che porti a dimostrare quanto l’umanizzazione pittorica, nei fatti, impatta sul contenimento del trauma e sulla sua elaborazione. Sappiamo che la percezione dell’ambiente, nel disagio, non è la stessa che si ha nell’agio. Ma bisogna capire come. Il designer deve mettersi al servizio del sistema sanitario, creare opere adeguate. Sono lontani i tempi in cui venivo vista come l’anti-Cristo che andava negli ospedali a sporcare i muri”.
Mai avuta nostalgia della Disney?
“Mai, nemmeno un attimo. La Romania mi ha cambiato la vita. Allora fu impossibile disegnare, che so, Topolino su quei muri, perché erano disegni coperti da copyright. Allora mi misi a inventare personaggi miei. E capii che nella vita volevo fare questo: mettere la mia arte al servizio del sociale. Quei bambini me li ricordo ancora: mi guardavano negli occhi e mi chiedevano di farli vivere. Una missione che, da allora, ho sempre cercato di portare avanti”.
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