Madri sante, madri Madonne, madri sofferenti, madri che si prendono cura. Un modello fisso, stantio, alla cui diffusione ha contribuito senza dubbio il cattolicesimo. Lo dice da cattolica Michela Murgia, la scrittrice sarda che domani sarà ospite della Casa delle Donne di Ravenna – e in particolare del gruppo biblioteca “La frantumaglia” – per un doppio appuntamento: alle 10,30 alla Casa di via Maggiore 120, dove sarà protagonista dell’incontro “Sporca, arrabbiata, vetero: cosa significa essere femminista oggi” e alle 17,30 alla Biblioteca Oriani per “Ave Mary e le altre: la passione per la verità”. Perché è proprio nel libro “Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna” (Einaudi) che l’autrice analizza come la figura di Maria, ma soprattutto il modo in cui nei secoli è stata descritta, stia ancora influenzando il nostro immaginario collettivo rispetto alla maternità.
“Partorirai con dolore”: in epoca di epidurale, quanto siamo ancora influenzati dall’idea che la donna, per essere madre, debba soffrire?
“Moltissimo. Lo stereotipo del ‘mammismo’ italiano è legato ancora al concetto che i figli so’ pezzi ‘e core. Il che ci ricorda che mettere al mondo dei figli significa avere il cuore a pezzi. L’immagine della ‘mater dolorosa’ è sempre lì presente a confermarci che la maternità non è un’esperienza gioiosa: il suo dolore è strutturale, mai liberatorio né salvifico. La nostra cultura farà sempre i conti con questa idea”.
Oggi si parla più spesso sia di fecondazione assistita, quindi di infertilità e sterilità, sia di donne “child free”, che non fanno figli per scelta: sono ancora vittime di stigma sociale?
“Sì, in maniera pesante. Lo dico da appartenente alla categoria, visto che ho deciso di non avere figli. Ma per me è più semplice: essendo esposta, sono vista come la donna appagata dal lavoro che può anche permettersi di non desiderare bambini. Per la donna che lavora in ufficio e che se resta incinta perde il contratto o non si può più realizzare professionalmente, è molto più dura: le viene detto che è egoista, incompleta, che rinuncia ai figli per una scrivania. A un uomo senza bambini nessuno direbbe mai una cosa del genere. Oggi, oltre alla cultura e alla religione che vedono la donna non madre come sbagliata, si è aggiunta la pressione sociale: si dice che il paese invecchierà sempre di più se non nasceranno bambini”.

In “Ave Mary” si parla molto anche di quella che è considerata una propensione naturale delle donne a prendersi cura degli altri, ad assistere gli altri. Le donne fanno le infermiere, le educatrici, le badanti. Come fossero funzionali al dolore di chi le circonda. Davvero è una questione di natura?
“Non lo è affatto. Ma in Italia ci si è concentrati talmente sulla famiglia che è stato creato un modello di familismo che si dà per scontato possa sostituire il welfare: come fosse normale che la sofferenza debba ricadere sulle spalle delle donne, pronte a occuparsi di bambini e anziani. Quando Rosy Bindi era ministro della Salute, in un’intervista disse che non sarebbe stato giusto far ricadere il peso dei malati cronici sul sistema sanitario nazionale perché di quei pazienti, tanto, si sarebbero interessate le donne, a casa. La dice lunga sul fatto che sia ancora considerato come naturalmente femminile il prendersi cura, come se il genio femminile finisse lì”.
L’aborto è un altro dei grandi temi ora come non mai alla ribalta, nonostante sia un diritto conquistato 37 anni fa. In “Ave Mary” si racconta di Gianna Beretta Molla, che venne santificata perché, negli anni Sessanta, accettò di morire pur di partorire il suo quarto figlio. Maternità come via per la santità, dunque. Perché la Chiesa non accetta che una donna possa scegliere ciò che riguarda il proprio corpo?
“Il peso della religione su una scelta come l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora drammaticamente forte. Non solo: assistiamo a un continuo arretramento pratico. Quando fai una legge che consente di abortire ma permetti a chi non è d’accordo di non implementare quel diritto – tramite l’obiezione di coscienza – di fatto lo neghi. Da cattolica sono consapevole che ci sia una battaglia tra due valori: la libertà della madre e la vita che si sta formando dentro di lei. Un conflitto morale enorme, davanti al quale però non ho dubbi: in ogni caso deve prevalere la volontà della donna. Peccato che chi sceglie di interrompere una gravidanza venga mandata negli stanzoni dove sono ricoverate le donne che partoriscono, condannata, giudicata”.
Oggi si parla anche di nuove famiglie e di nuovi modelli genitoriali. C’è margine per un cambiamento?
“C’è eccome. Un giorno ero al supermercato con mio fratello e suo figlio. La cassiera li ha visti e ha detto a mio fratello: ‘Oggi fai il baby sitter?’. Un esempio del fatto che non siamo abituati a pensare che sia l’uomo a occuparsi dei bambini. Ma molto sta cambiando. La maternità e la paternità, ben lontane da quella orribile parola ‘babbo’ che tanto circola, saranno le nuove frontiere del cambiamento culturale. Impossibile evitarlo: la classe politica discute dei diritti delle nuove famiglie come se non esistessero ancora. Ma loro sono là fuori, il mondo corre più in fretta della legislazione. Basta ricordare i referendum sull’aborto e sul divorzio: la Chiesa era convinta che gli italiani seguissero i dettami provenienti dai pulpiti. Invece successe il contrario”.
Le donne sono consapevoli che il concetto di “ruolo” le incastra?
“Sempre di più, ne sono convinta. A Ravenna porrò l’accento sulla parola esperienza. Noi cresciamo con l’idea che essere madri sia un ruolo. E quando parliamo di ruolo, parliamo di qualcosa che siamo obbligate a ricoprire e di qualcosa di fisso, standardizzato, codificato. Da cui non puoi uscire, a cui non puoi rinunciare, che non puoi interpretare diversamente. Non è affatto così”.
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