
“Contento? Abbastanza. Avrei voluto avere accanto a me parecchi bidelli, sa quanti ne ho conosciuti di bravi nella mia vita?”. Andrea Canevaro, ravennate, non si stanca di insegnare. A 75 anni, fresco del riconoscimento di “professore emerito” assegnatogli dall’Università di Bologna, il padre del sostegno scolastico è convinto che, per l’integrazione dei bambini e dei ragazzi disabili, contino una larga cerchia di persone.
E invece? Che cosa succede?
“Si tende a fare diagnosi e a delegare agli specialisti, dimenticando che l’integrazione è materia di tutti: genitori, cuochi, insegnanti. Io sono per il sostegno evolutivo e diffuso, che significa proprio questo: allargarsi agli altri. A volte, invece, si sente dire che se la maestra di sostegno è malata, allora l’alunno che segue può rimanere a casa. Un esempio che ci fa capire quanto siamo lontani dall’obiettivo”.
L’aumento delle diagnosi, per esempio sul fronte dei disturbi specifici dell’apprendimento, va visto come un dato positivo e negativo?
“Il fatto che la diagnostica sia sempre più avanzata è un bene, non c’è dubbio. Ma non significa per forza che anche le prognosi siano giuste. La diagnosi, da sola, rischia di fare da blocco per la persona, non consentendoci di vedere oltre. Il lavoro degli educatori, al contrario, è proprio la costruzione di un ponte tra presente e futuro, tra quello che si vede e quello che non si vede. La diagnosi non deve condizionare negativamente l’avvenire di un bambino, è solo un punto di partenza”.
Lo dice ai suoi studenti?
“Perbacco, lo dico eccome. Ma l’importante è che siano loro, poi, a dirlo agli altri. Va divulgata un’idea di sostegno che vada al di là delle competenze certificate di alcune persone, per carità utilissime. Di insegnanti di sostegno, a mio modesto parere, ce ne sono pure troppi”.
Ma non rischiano di restare nell’ombra, a volte?
“Succede sì. Incontro moltissimi insegnanti bravi, entusiasti, appassionati. Ma il loro lavoro quotidiano, se non riguarda casi di disabilità molto grave che vengono raccontati dai media, rimane nascosto. La disabilità, se descritta solo attraverso qualche storia drammatica, rischia di dare di sé un’immagine falsata, di completo sfacelo”.
C’è qualche bella storia alla quale sta assistendo, magari in Romagna?
“Mi sta molto appassionando un progetto nel quale sono coinvolto a Santarcangelo, dove alcune persone con disabilità anche gravi sono diventate imprenditori del settore multimediale”.
Pedagogia speciale: il nome della sua materia raccoglie tutto quello che andrebbe fatto?
“A me piacerebbe si chiamasse ‘pedagogia speciale per l’integrazione’. Ma per cambiare il nome delle materie, in Italia, c’è da fare una guerra”.
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