bambini bimba Monica Lanfranco sa che il prezzo da pagare, per noi genitori, è alto: la fatica e il sacrificio di combattere contro i mulini a vento, di sorpassare gli ostacoli, di andare controcorrente e sentirsi a volte una minoranza smarrita nella folla. Ma sa anche che il risultato è dei più ambiziosi: avere figli sereni, liberi, lontani dalle gabbie che tendono ad omologarli, etichettarli, farli sentire tutti uguali e per questo non se stessi. Monica è una giornalista e formatrice sull’educazione di genere e il conflitto. Martedì 29 aprile alle 20,15 sarà al Centro salute Quarzo Rosa di Faenza (piazza della Penna, 7), ospite di Zebra Gialla, per uno degli incontri del ciclo “Un’altra educazione è possibile. Uno sguardo differente“.
Monica, i discorsi sull’educazione e gli stereotipi sono sempre più frequenti ma restano comunque di nicchia. Che aria tira nelle scuole?
“Ci sono alti e bassi. I momenti di forte esaltazione si alternano a quelli di sconforto. Il problema, come sempre, non sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze ma le persone adulte. Spesso l’ostacolo che un genitore trova davanti a sé quando cerca di educare un figlio ad avere un pensiero libero e critico sono proprio gli altri adulti. Purtroppo da vent’anni a questa parte si è rotto quello che io chiamo patto educativo”.
Ovvero?
“La collaborazione tra famiglie e insegnanti, che prima riconoscevano la reciproca autorevolezza. Penso che lo spartiacque sia stato un episodio avvenuto una quindicina di anni fa, quando in seguito ad una lettera inviata da un preside ai genitori per chiedere che i loro figli non portassero in classe i cellulari, le famiglie fecero partire un’azione legale per abuso di potere. La dice lunga”.
Problema di un’idea sbagliata di scuola?
“Anche, sì. Spesso la scuola non è considerata un comunità indispensabile alla crescita e alla costruzione della cittadinanza. Si pensa solo al latino e all’educazione artistica, tanto per fare un esempio. Invece io sostengo che la scuola possa fare ancora la differenza: se abdica dal suo ruolo principale, come già fa, la situazione diventa drammatica”.
Come possono fare la loro parte, invece, i genitori?
“Con l’ascolto, lo sguardo, la creatività. Tenendo in considerazione che il proprio figlio è unico, che ha capacità di trasformazioni solo sue. Per questo, dobbiamo partire dal linguaggio: non si tratta di eliminare le parole, al contrario di usarne di più. Quello che è successo negli ultimi tempi, al contrario, è una riduzione del vocabolario, incentivata anche da un utilizzo poco creativo delle tecnologie. Se io dico ‘clandestino’ anziché ‘migrante’, do un giudizio. Se dico ‘diritti dell’uomo’ e non aggiungo ‘delle donne’, censuro una parte, la nego. Quando in classe dico ‘ragazzi alzatevi’, si alzano tutti. Se dico ‘ragazze alzatevi’, lo fanno solo le femmine. Il problema sta qui: perché i maschi sono tutti e le femmine sono solo le femmine?”.
Da un’educazione omologante non ci si può redimere più avanti?
“Quando un bambino apprende da un insegnamento, lo dice il termine stesso, viene segnato. Meglio, sempre, portare i propri figli a ragionare, analizzare, mettere in discussione le informazioni che da ogni parte arrivano, pubblicità in primis”.
Una sfida?
“No, un impegno. Gli esempi confortanti ci sono, sia nel mondo dei giocattoli, che dei libri, che della televisione. Bisogna, come sempre, mettersi in discussione”.

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