Questo è un pezzo ad altissimo contenuto di doglie (e di dolore). Quello provato al suo secondo parto da Valentina Maran, copywriter di Varese alla quale – pur presentando tutte le condizioni fisiche idonee – non è stato fatto l’epidurale al contrario di quanto lei avesse chiesto. Il trattamento riservato a Valentina non è stato proprio da guanti di velluto. A molte di noi il suo racconto ricorda qualcosa. Il fatto è che Valentina di professione fa la blogger. Subito dopo il parto, quindi, ha messo le mani sulla tastiera e ha raccontato “Il mio parto: una macelleria messicana”. Che vi riproponiamo, in parte, qui di sotto (la lettura continua sul blog di Valeria!). Oltre a presentare una lettera formale all’Urp dell’Ausl di Varese su quanto accaduto il 13 gennaio scorso. Valentina la trovate sul suo blog: Uomochemilava, sul suo sito www.valentinamaran.com, si occupa della gestione del blog “sesso” della rivista Elle.
Il mio parto: una macelleria
All’ospedale di Varese dove sono stata io vi diranno che l’epidurale è un diritto.
È un centro d’eccellenza, di quelli coi bollini rosa, eh. Non un posto qualunque.
Vi rassicureranno.
Vi faranno fare l’incontro con gli anestesisti.
Vi terranno lì un’ora a spiegarvi pro e contro.
Quando farete le domande e vi accerterete che davvero quando chiederete l’epidurale ve la faranno, loro vi diranno che sì, che è così.
Che c’è sempre un anestesista di turno, libero, pronto a seguirvi.
Che basta essere sotto agli 8 centimetri di dilatazione per farla, e fa effetto in 20 minuti.
Che non ci saranno problemi.
Chiedi e ti sarà dato. O meglio: ti sarà fatta.
Questo è quello che ti senti dire.
Fino a che non arriva il giorno del parto.
Tu arrivi in ospedale. Ti monitorano, ti visitano.
Sei di 5 centimetri. Dici “voglio l’epidurale”.
Ti dicono ok.
Ti portano in sala parto.
E lì poi non te la fanno.
Perché l’epidurale è un tuo diritto fino a che non la chiedi.
Provate: succederà a moltissime di voi.
A me è andata così, ma ho notato che la procedura è stata simile per molte donne che hanno partorito in quei giorni.
Tu arrivi, sei dilatata il giusto, dichiari l’intento, e l’ostetrica di turno che ti prede in affido fa melina (o meglio, per chi non se ne intende di termini calcistici da oratorio: pirla in giro temporeggiando non si sa bene su cosa).
Il mio inferno in sala parto è cominciato così: con un’epidurale fantasma in un’alba gelida del 13 gennaio 2014.
Arrivo in sala parto spinta su una carrozzina. Mi hanno detto che mi fanno l’epidurale, che posso, non c’è problema.
Sto già meglio all’idea perché le contrazioni sono già forti, quindi non voglio perdere tempo.
L’infermiera che spinge la sedia annuncia urlando a qualcuno in uno stanzino “abbiamo una partoanalgesia!”
E io già comincio a rilassarmi. Meno male.
La sala parto è fredda, hanno scordato le finestre aperte e io indosso solo una camiciola a maniche corte.
L’infermiera chiude tutto, accende le luci.
Le dico che c’è molto silenzio e mi spiega che ci sono giusto io e un’altra donna che sta partorendo. Serata tranquilla.
Poi mi fa mettere sul lettino, mi dice di aspettare l’ostetrica per la visita e mi lascia lì.
Difficile dire quanto sia passato.
Fuori sento chiacchierare e ridere.
Passa del tempo. Intanto prego, giuro, prego che quel diavolo di anestesista arrivi.
Non voglio giocarmi l’unica carta buona del mazzo: io un altro parto naturale non lo voglio fare. Intendiamoci: quello di Emma è andato bene. Sono semplicemente state 10 ore di inferno andata e ritorno. Un dolore mai vissuto. L’ho passato, sopportato, controllato. Ma ho giurato che non voglio più sentire nulla del genere in vita mia. Quindi dove cazzo è quell’anestesista?
Si palesa di nuovo l’infermiera che vuole i vestiti del bimbo da mettere sotto la lampada per scaldarli.
Gigi glieli dà.
Io chiedo “ma l’anestesista?”
“Eh, signora, prima la deve visitare di nuovo l’ostetrica, ma stia tranquilla, è qui fuori”.
Ah, quindi è lei quella che sento chiacchierare come se niente fosse. No, perché è passata almeno mezz’ora buona e a me fa strano che ‘sta tizia ancora non si faccia viva. L’altra volta non era stato così. L’altra volta le ostetriche erano state con me da subito. Senza mollarmi un secondo.
Passa un tempo infinito. Finalmente l’ostetrica si palesa: è la ragazza alta dall’accento siciliano coi capelli neri e i riccioli a cavatappi che era lì con l’infermiera che mi ha fatto il monitoriaggio.
È quella.
Va bene.
Ok.
“Come hai detto che ti chiami?”
“Valentina”
Scrive non so cosa.
“Quando arriva il simpatico anestesista?”- le chiedo
“Simpatico?! E chi ti ha detto che sia simpatico?… No, prima ti devo visitare io, poi vediamo se chiamarlo”
“Non farmi aspettare troppo, voglio l’epidurale”
“Eeehhhh, stai tranquilla, che tanto ti devo prima vedere io, non avere fretta”
Ed esce.
Di là comincia a sentirsi trambusto, l’altra tizia che deve partorire sta urlando. Avrà almeno altre 3 persone al capezzale, visto la quantità di voci che la incitano.
L’ostetrica non torna.
È più il tempo che stiamo passando da soli di quello in cui lei è qui.
Le contrazioni si fanno più forti.
Cerco di concentrarmi, di sfregare le mani e contare per controllare il dolore, cerco di pensare che andrà bene, che è il secondo, e col secondo è tutto più facile.
Però ho una paura folle.
E non va bene. Non ho le sensazioni giuste e questa tizia non va bene.
L’altra volta non è stato così. Perché ci sta mettendo tanto? Perché insiste a lasciarmi sola?
Finalmente rientra. E mi visita.
“Come hai detto che ti chiami?”
“Valentinaaaaaaah” riesco ad emettere alla fine di una contrazione che mi sta davvero facendo del male.
“Va bene. Allora appena è passata la contrazione ti visito, me lo dici tu quando posso”.
Aspetto che il male scemi e le dò l’ok.
Lei entra forte ravanando. L’unica cosa che sento indistinta è il liquido amniotico che improvvisamente scende tra le mie gambe.
Cazzo, mi ha rotto il sacco MI HA ROTTO IL SACCO! Senza dirmelo. Senza chiedermelo!
L’altra volta le ostetriche mi avevano chiesto il permesso per farlo con un apposito bastoncino di legno. Te lo chiedono, non è una manovra che possono decidere loro.
Invece lei l’ha fatto. Non mi dice nulla. Non mi dice neanche “hai rotto le acque”. Cazzo, mi ha rotto il sacco. Questo vuol dire che sarà tutto più veloce, in teoria, ma anche che le contrazioni saranno molto più intense.
Ho quasi le lacrime agli occhi. È una violenza questa, una violenza contro me e il mio bambino.
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