Figli, anziani: perché tocca sempre alle donne? La conciliazione è anche un problema degli uomini

Dici conciliazione e pensi ai bambini piccoli da accudire. Ma pensi, soprattutto, ad un problema da donne. Invece no. Mirella Dalfiume, esperta di politiche di genere e consulente del progetto “Conciliazione dei tempi lavoro-famiglia nell’organizzazione aziendale” dei Comuni di Ravenna e Faenza, ribalta, o meglio allarga, la prospettiva: “La conciliazione? Una questione che riguarda tutti, anche gli uomini”.
In che senso?
“Quando parliamo di figli, ma anche di anziani e familiari non auto-sufficienti, parliamo di qualcosa che interessa tutta la famiglia. Bisogna superare la visione tradizionale secondo la quale il concetto di accudimento è prettamente femminile. Quando le aziende si interrogano su come far sì che i dipendenti riescano a gestire esigenze professionali e familiari in modo equilibrato, non dovrebbero dimenticare la componente maschile”.
A proposito di aziende, due anni fa decine di realtà hanno aderito al percorso dei Comuni di Ravenna e Faenza. Come sta andando avanti quel progetto?
“Abbiamo iniziato con la formazione rivolta sia ad aziende private che ad amministrazioni pubbliche e coinvolgendo anche rappresentanti delle associazioni di categoria e delle organizzazioni sindacali .Allora erano ancora in piedi i finanziamenti previsti dall’articolo 9 della legge 35 del 2000 che appunto concedeva contributi economici a chi adottava le cosiddette azioni positive: flessibilità in termini di orario, agevolazioni al rientro dopo il congedo di maternità. Ma dal 2012, purtroppo, il finanziamento è venuto meno”.
Come avete modificato il vostro lavoro, visto che è mancato il collegamento diretto alle agevolazioni finanziarie?
“Abbiamo intrapreso incontri più mirati con le singole aziende, per capire criticità e difficoltà nello sposare pratiche di conciliazione”.
Quali sono emerse, principalmente?
“In presenza di professioni che prevedono un rapporto con il pubblico, come certi sportelli istituzionali o attività commerciali, c’è meno facilità a promuovere orari flessibili in entrata o uscita o accorciamenti della pausa pranzo. Prassi che in altre realtà, invece, esistono già da tempo e che al momento stiamo ultimando di raccogliere”.
Un esempio?
“Un’azienda che opera nel settore crediti e assicurazioni ha inserito dei bonus per agevolare i carichi familiari e per abbattere la retta dell’asilo di qualche centinaio di euro”.
In questo modo si possono evitare anche eccessive richieste di part-time?
“Sì, anche se il problema dei part-time è legato sopratutto ad un errore passato, quando venivano concessi a tempo indeterminato. Una donna che l’ha ottenuto quindici anni fa, magari oggi non ne ha più bisogno perché i figli sono cresciuti. Così, però, magari impedisce ad una collega che ne ha bisogno di poterne usufruire. E il danno è doppio: non solo per la collega ma anche per lei stessa, in termini di carriera, stipendio e futura pensione”.
Servirebbero part-time temporanei?
“Sì, magari rinnovabili. Sennò si viene a creare il ghetto del part-time, fatto di soggetti privilegiati per l’orario ridotto ma penalizzati nel lungo periodo”.
Ci sono ostacoli culturali, da parte delle aziende, nell’occuparsi di conciliazione?
“Credo che il limite culturale sia più generico e riguardi una resistenza nell’ammettere che avere tempo per i figli, per la famiglia, sia roba da donne. E quando un adolescente ha un disagio, verso chi si punta il dito? Contro la mamma. Ma dov’era, quella donna, quando il figlio avrebbe avuto bisogno di lei? Magari al lavoro. Dobbiamo capire che il tempo per stare con i figli ha un valore sociale, si traduce in benessere materiale”.
Il nostro territorio, però, è più avanti di altri su queste tematiche. Falso mito?
“Io dico che un progetto del genere lo si sarebbe dovuto fare un decennio fa, quando le risorse non mancavano. Ma non è certo colpa di chi oggi, invece, lo porta avanti. Per fortuna alcune esperienze sono state promosse indipendentemente dalla cornice istituzionale”.

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