Omofobia, pregiudizi, bullismo. Che per combatterli il luogo migliore sia la scuola è condiviso da molti. Arcigay Frida Byron ci ha provato a Ravenna, durante l’anno scolastico che sta per concludersi, intervenendo in tre istituti superiori: Itis, Callegari e Olivetti. L’esito del progetto sarà presentato domani alle 17 in piazza San Francesco (in caso di pioggia l’incontro si sposterà a Palazzo Rava, via di Roma 117) nell’ambito del festival “Il grido della farfalla”. E’ Bruno Moroni a raccontare l’esperienza, alla vigilia del corteo contro l’omofobia che domani alle 16 partirà dalla sede di Arcigay (via Eraclea, 25) alla volta del centro storico. E a due giorni dall’open space di democrazia partecipata che sabato mattina alle 9,30, sempre in sede, verrà creato per dare vita a quattro gruppi di lavoro contro le discriminazioni.
Bruno, avete coinvolto solo i ragazzi o anche i docenti?
“Il primo incontro è stato riservato agli insegnanti. Abbiamo mostrato loro il video ‘Spell it out’ che proietteremo anche domani alle 15 nella nostra sede. In Gran Bretagna il dvd viene inviato in ogni scuola. Noi abbiamo provveduto a sottotitolarlo in italiano. Poi siamo passati agli studenti”.
Con quale metodo?
“Abbiamo coinvolto sette classi in tutto con dei laboratori che utilizzano il metodo dell’educazione non formale, quella che non prevede distanza fisica tra le persone, né cattedre: ci si mette in cerchio, si fanno esercizi e brain storming”.
Quanto è tangibile l’omofobia?
“Dipende dalle scuole e anche dalle classi, tra una prima e una terza per esempio abbiamo notato differenze. I pregiudizi esistono eccome. Dal prossimo anno vogliamo avviare un progetto molto più capillare e strutturato che parta da un sondaggio iniziale che verifichi quanto in una data classe esista il bullismo e con un sondaggio finale che misuri l’efficacia del nostro intervento”.
Vi ispirate a qualche esperimento già avviato?
“Rubiamo alla legge inglese un protocollo, l’Equality Act, del quale ci interessa in particolare la misurabilità dei pregiudizi”.
Che cosa ha particolare efficacia sui ragazzi?
“Forse le storie personali, i casi reali. Al termine del nostro percorso abbiamo portato nelle classi alcune persone transessuali: alcuni ragazzi hanno fatto domande, abbiamo visto una certa comprensione ed empatia”.
Lavorerete solo con le superiori anche in futuro?
“No, vogliamo partire dalle scuole dell’infanzia, dando agli insegnanti gli strumenti per far sì che nelle classi non si crei clima omofobo. Anche una frase come ‘che scarpe da gay hai oggi’ lo può instaurare. E se in quella classe c’è un alunno omosessuale, non si sentirà a suo agio. A Bologna il Cassero è partito dal 2003 con un progetto simile: allora coinvolgeva cento ragazzi, ora sono 1.200. Bisogna arrivare in quante più classi possibili”.
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