Il Ministero della Salute dice basta al business dei tagli cesarei e lo fa con un’indagine che mira a portare alla luce la quantità di quelli fatti senza motivazione. Emerge che il 43% dei tagli cesarei effettuati nel 2010 è inappropriato non essendoci corrispondenza con quanto riportato nella scheda di dimissioni ospedaliera.
Per raccogliere i dati, i Nas hanno prelevato 3.273 cartelle cliniche da 78 centri ospedalieri pubblici e privati accreditati, registrando una moltitudine di cartelle cliniche vuote in 12 regioni, Sicilia in testa.
Se davvero tutti i casi di taglio cesareo inappropriato dovessero rivelarsi tali, per lo Stato, secondo la stima effettuata dal Ministero, si tratterebbe di uno spreco che va dagli 80 agli 85 milioni di euro.
Se infatti un parto naturale costa 1.318.64 euro, quello cesareo lievita a 2.457,72.
Il sospetto che ci fossero troppe anomalie è stato sollevato un anno fa dall’Agenzia nazionale per i servizi nazionali regionali (Agenas) che ha messo in discussione la validità delle informazioni contenute in molte cartelle cliniche di pazienti che avevano fatto il cesareo. A far drizzare le antenne è stata soprattutto la “posizione anomala del feto”, causa maggiormente ricorrente per i tagli cesarei e che in alcune regioni, a fronte di una frequenza nazionale dell’8 per cento, si aggirava tra il 20 e il 50: punte massime raggiunte soprattutto in Campania, Lazio, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia.
Il problema non è solo lo spreco di denaro pubblico ma anche di rischi per la salute: il cesareo porta con sè un rischio tre volte maggiore di decesso per complicanze, le donne che lo hanno fatto hanno un rischio di lesioni 37 volte superiore a quelle che hanno partorito in modo naturale, con il rischio di rottura dell’utero al secondo parto 42 volte superiore rispetto al parto vaginale.
Per non parlare delle cartelle cliniche con documentazione insufficiente o di difficile valutazione (spesso addirittura vuote): in Sicilia sono risultate prive di documentazione il 72% delle cartelle, in Lombardia il 31, in Lazio il 24, in Calabria il 23. Dati opposti arrivano da Veneto, Liguria e Provincia autonoma di Trento, con il 100% di cartelle cliniche impeccabili, a seguire Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta con il 97%.
L’obiettivo del Ministero, dunque, è “diminuire la frequenza dei parti per taglio cesareo, e ridurre le forti differenze regionali attualmente esistenti, arrivando entro il triennio ad un valore nazionale pari al 20%”.
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