Simone Martinoli ha imparato che per superare il trauma, che sia stato causato dalle bombe o dal lockdown, servono relazioni umane, quotidianità, possibilità per rimettersi in gioco, occasioni per riscoprire le proprie competenze. E ha imparato anche che portare il gioco in contesti di emergenza non è solo lasciare una traccia ma far sedimentare qualcosa, che poi in autonomia può crescere, svilupparsi e prendere direzioni inaspettate.
Simone, operatore sociale della cooperativa Equa di Milano, ha partecipato qualche giorno fa alla formazione online, organizzata dai ravennati di Diritto al gioco, dal titolo «Giocare nell’emergenza» (qui il programma e il link per iscriversi ai prossimi incontri) dove ha portato il suo racconto dell’esperienza del Ludobus in Palestina, territorio nel quale ha vissuto sette anni.
«Il Ludobus è una ludoteca ambulante che serve a portare il gioco, quello 0-99 anni per intenderci, nello spazio pubblico, specie in posti senza servizi e con poche opportunità. Con l’Ong EducAid di Rimini, tra il 2003 e il 2004, abbiamo iniziato a portare in Ludobus in Palestina come strumento di supporto psico-sociale e di risposta al trauma. Tra gli intenti, c’era quello di favorire la nascita di spazi informali adatti ai bambini». Tra le soddisfazioni più grandi, quella di essere riusciti a costruire una quantità notevole di giochi pur senza strumenti particolari: «Grazie ai partner locali, abbiamo operato in vari campi profughi della West Bank e della Striscia di Gaza, così come in scuole materne e primarie, recuperando materiali, allestendo spazi, costruendo insieme occasioni per giocare».
A Simone piace ricordare, in particolare, i labirinti cooperativi, giochi che venivano dipinti con le rappresentazioni dei vari paesi storici della Palestina: «Le persone li sentivano come simbolo di orgoglio identitario, aspetto che è stato interessante rilevare». Interessante, per l’operatore, anche notare sia gli effetti immediati che quelli a lungo termine del portare il gioco nei campi profughi: «Forse è banale dirlo ma il benessere che il gioco porta a un bambino che vive in un luogo pieno di macerie o nei pressi di una discarica è evidente. Pensando alle conseguenze meno tangibili, invece, senza dubbio il gioco, specie dove le attività sono organizzate con una certa cadenza e continuità, è uno strumento di formazione delle competenze. E se è colto in questi termini anche dalle agenzie educative del luogo, dai genitori agli insegnanti, allora avviene un cambiamento. Questo è ciò che è successo in Palestina».
Tra le sorprese più indimenticabili, quella di vedere una casa diroccata trasformarsi in una officina automatizzata che è diventata un’azienda. Segno che lasciare una traccia permette a volte di far camminare nuove esperienze sulle proprie gambe: «E pensare che avevamo portato solo tavolo, seghetto e trapano».
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta