Bambini che alla nascita si sa già che avranno poche ore o pochi giorni davanti a causa di patologie incompatibili con la vita. Genitori che, se generalmente verrebbero separati dai loro figli, ricoverati in terapia intensiva neonatale, di lì a poco si troveranno a fare i conti con un lutto difficilissimo da elaborare.
All’ospedale Sant’Orsola di Bologna esiste un percorso pensato per loro sul modello di “comfort care” della Columbia University di New York, dove la dottoressa Chiara Locatelli, neonatologa, ha passato qualche anno. A darle il la, il caso di Giacomo, un bimbo nato anencefalico (senza scatola cranica) nel 2013 e vissuto per 19 ore. La mamma, Natascia, che undici anni prima aveva partorito una bambina con lo stesso problema di Giacomo, poi morta subito dopo la nascita, ha raccontato anni fa che in quelle 19 ore tutta la famiglia – compresi i sue due bambini – è potuta restare accanto a Giacomo prima di salutarlo.
E oggi si chiama proprio “Percorso Giacomo” il protocollo accolto a braccia aperte dal direttore della Neonatologia Giacomo Faldella: “Quando, alla nascita, viene confermata la diagnosi che era stata fatta in gravidanza – spiega Locatelli – si attivano una serie di misure in collaborazione con il personale dell’Ostetricia. Prima di tutto il neonato rimane in stanza con la mamma, una stanza nel reparto di Ostetricia – dove si trovano dunque anche le altre mamme – ma che gode di una particolare privacy. E poi viene realizzata un’assistenza speciale in base alla quale il bambino resta il più possibile al caldo e in braccio, non prova dolore, viene alimentato e idratato in base alla situazione”.
In parallelo, viene coinvolta l’intera famiglia, dai fratellini ai nonni passando per il papà, con un’attenzione particolare alla creazione di una memory box nella quale vengono riposte fotografie e vestitini: “Un lavoro che facciamo con tutta la delicatezza del caso, rispettando la volontà dei genitori”.
Dopo aver saputo del percorso, diverse mamme sono andate a partorire al Sant’Orsola: “Non siamo gli unici in Italia a farlo. Sappiamo di protocolli simili anche a Monza e al ‘Gemelli’ di Roma, così come siamo a conoscenza del fatto che Napoli si sta attivando in tal senso. Di recente abbiamo avuto un altro caso di anencefalia: la mamma, tra l’altro musulmana, ha potuto incontrare anche quella di Giacomo, in uno scambio culturale che la dice lunga su quanto certi temi e certe sensibilità siano trasversali. L’aspetto importante è che le donne e le mamme sappiano dell’esistenza del Percorso Giacomo, di modo che se si venissero a trovare in situazioni particolari, siano a conoscenza del fatto che al Sant’Orsola possono essere accolte e assistite al meglio. Abbiamo un’intera équipe multidisciplinare formata in tal senso: ostetriche, ginecologi, psicologa e, se serve, anche assistenti sociali e religiosi”.
Il percorso è anche riconosciuto come una delle attività utili a favorire l’elaborazione del lutto: “Senza un’immagine, senza l’idea di una presenza, si creano spettri e immagini che possono, per esempio, spaventare i fratellini. Abbiamo comunque una psicologa che prende in carico le famiglie intere, in genere molto provate da storie di questo tipo”.
Parole alle quali fanno eco quelle di Faldella: “Sono orgoglioso del fatto che in un ambiente che rischia di essere così algido e sterile come il nostro, torni ad avere valore la cura della persona rispetto a quella della malattia. Dobbiamo occuparci dei bambini malati, certo, ma anche di quelli il cui destino è già segnato”.
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