Sulla maternità ha scritto i libri “Mamma a modo mio”, “S.O.S. Tata” e “Guerriere”. La giornalista del Fatto Quotidiano e dell’Huffington Post Elisabetta Ambrosi arriva a Ravenna sabato 14 aprile per parlare della fatica di essere madri in Italia, degli stereotipi che ruotano intorno alle donne e della mancanza di servizi adeguati a sostegno delle famiglie. L’appuntamento è alle 16,30 al Centro di crescita/Sogno del Bambino di via Faentina 119 (prenotazione consigliata allo 0545/23191 interno 2).
A parte l’essere mamma di due figli, che cosa ti spinge di più a occuparti di maternità, conciliazione, diritti delle donne?
“Sicuramente il senso di ingiustizia, che è il motore che mi ha sempre spinto nella vita così come nel mio lavoro di giornalista. Prendiamo la maternità: fino a poco tempo fa c’era una legge che rendeva impossibile la fecondazione assistita e costringeva le donne italiane a emigrare, oggi molti divieti sono caduti ma per accedere a un percorso pubblico devi essere sotto i 43 anni e le liste d’attesa sono infinite. Quando invece una donna partorisce, rischia di subire un cesareo inutile e una volta a casa non ha alcun tipo di aiuto come invece accade quasi ovunque in Europa. Ma la fase più difficile arriva dopo, quando bisogna conciliare un lavoro spesso sottopagato, senza tutele o a tempo determinato con i bisogni a tempo indeterminato di un bambino, tra asili assenti o troppo costosi e sussidi ridicoli. Mi fermo qui perché se volessimo parlare di diritti delle donne andremmo avanti a lungo, tra parità in casa che non c’è, stipendi molto più bassi e tante donne che non lavorano, specie chi ha figli. Per non parlare di aborto e salute delle donne”.
Che rapporto hai con la perfezione e l’imperfezione materna?
“Da un lato, detesto la retorica della mamma imperfetta, ovvero quel discorso che sostiene che il problema della conciliazione vita-lavoro sarebbe risolto se le mamme italiane fossero meno perfette. In questo modo, si scarica sempre il problema della conciliazione sulle spalle delle donne, quando invece in Italia è del tutto evidente che la conciliazione è diventata sempre più difficile perché, oltre allo scarso aiuto paterno (anche se le cose stanno migliorando) manca del tutto l’aiuto fondamentale dello Stato, senza il quale non si concilia un bel nulla. Dall’altro lato, però, credo che in Italia i bambini siano educati male, ovvero l’educazione che stiamo dando di fatto rende il nostro lavoro di madri molto più complicato: bambini troppo protetti, che non alzano un dito a casa, scarsamente autonomi (ci sono mamme che infilano mutande anche a bambini di otto, nove anni), che non hanno confini, che non hanno, soprattutto, doveri ma solo diritti.E poi il consumismo sfrenato nel quale li stiamo crescendo, che ci costringe magari a far salti mortali visti i nostri piccoli redditi per comprargli il capo firmato. Questa educazione non solo è sbagliata, ma è scarsamente funzionale alla società nella quale viviamo e rende i nostri figli incapaci di affrontare le difficoltà che a un certo punto troveranno, nel paese in cui un ingegnere è pagato 500 euro”.
In che relazione stanno, secondo te in Italia, l’eccessiva colpevolizzazione delle donne madri e un sistema esterno (compreso quello familiare) che non le valorizza, non le sostiene, non le equipara agli uomini?
“Sicuramente in una relazione diretta. Quando manca l’aiuto del partner, o magari c’è ma non è abbastanza, quando manca l’aiuto dello Stato, quando lei guadagna troppo poco anche se lavora lo stesso le cose non funzionano bene. Però le donne, invece di chiedere al compagno o marito maggiore aiuto, finiscono per colpevolizzarsi. Così come si colpevolizzano anche se, appunto, la conciliazione fallita non dipende da loro, ma da una società che non supporta le madri in nessun modo. Questo è un punto importantissimo, perché se le donne non diventano consapevoli continueranno a lacerarsi, e dunque a stare male, e a cercare soluzioni laddove non ce ne sono. Mentre il sistema continuerà a non cambiare”.
Lavoro da una parte, figli dall’altra: è davvero un bivio, quello davanti al quale molte donne si trovano?
“Oggi più che mai e soprattutto molto di più delle nostre madri, che nella maggior parte dei casi erano dipendenti pubbliche magari part time. Le statistiche dicono che le donne che fanno più figli sono quelle con un contratto a tempo indeterminato e non è difficile capire perché. Con lavoretti precari e intermittenti e retribuzioni minuscole fare un figlio è difficile. Anche perché la precarietà non si trasforma più in stabilità, ma prosegue negli anni. Tanto è vero che chi non ha un lavoro sicuro finisce per lasciarlo e diventare casalinga, con enorme spreco di talento femminile. Comunque oggi le donne che non fanno figli in Italia sono tantissime, ci sono dati spaventosi. Una donna adulta su due non ce li ha, e chi li fa ha un’età avanzatissima rispetto all’Europa, 32 per le madri e 35 per i padri, con tutti i pesanti problemi che ne conseguono. Insomma non serve un commento, bastano i numeri per capire che l’alternativa tra lavoro e figli da noi è concretissima”.
Su quale aspetto in particolare l’Italia perde il confronto con i Paesi che hanno un welfare più avanzato?
“Non vorrei essere pessimista e parlare sempre negativamente dell’Italia, ma purtroppo avendo intervistato decine e decine di mamme che vivono altrove, e scritto articoli sulla maternità all’estero, non posso che parlare di una totale assenza di politiche familiare, che nessun ‘bonus’ di quelli che sono stati fatti – ridicoli perché con criteri di accesso strettissimi e comunque a tempo – ha potuto compensare. Sono molte le cose che mancano all’Italia perché possa tornare ad essere un paese che fa figli. Da un lato, misure legate strettamente all’avere figli come un’ostetrica a case per le prime settimane di vita, fondamentale per una mamma che non sa da che parte cominciare; un congedo per i padri obbligatorio e lungo almeno, dico almeno due settimane, ma altrove si arriva addirittura ad alcuni mesi; una rete di nidi capillare, funzionante e accessibile; sussidi diretti non solo alle famiglie povere, ma anche quelle con reddito medio, escluse da tutto. Sussidi che devono durare almeno fino a 18 anni e se possibile, come accade altrove, anche fino alla fine dell’Università, visti i costi che una famiglia deve mantenere. Ma il lavoro principale andrebbe fatto su un altro versante, ossia quello delle politiche del lavoro. Se vogliamo che gli italiani tornino ad avere figli dobbiamo far sì che il lavoro torni a dare un reddito dignitoso e non ridicolo, che il lavoro torni ad essere stabile e tutelato, che ci siano ammortizzatori sociali degni di questo nome anche per i lavoratori autonomi, così come tutela in caso di malattia anche per chi non è dipendente. Basta con mini-job ridicoli che non bastano per pagare pane e latte, serve lavoro vero. Solo così il calo demografico potrà invertirsi, solo così potremo tornare ad essere un paese ricco di bambini”.