Chiusi nelle loro stanze, lontani da ogni forma di vita sociale, senza alcuna intenzione di tornare a scuola. Sono i cosiddetti ragazzi Hikikomori, isolati sociali sempre più spesso all’attenzione delle cronache. Anche in Emilia-Romagna, all’interno dell’associazione Hikikomori Italia, si è costituito il primo gruppo di genitori, che fa capo a Bologna e che dieci giorni fa, durante il convegno “I banchi vuoti” organizzato in collaborazione con i licei Fermi e Sabin con il patrocinio dell’Usr Emilia-Romagna, ha fatto emergere tutte le problematiche del caso.

“Vedere un figlio – nell’età in cui abitualmente inizia a sbocciare, a costruire le prime relazioni importanti, ad affrontare in autonomia la scuola e le sue difficoltà – che invece si ritira, è drammatico, spiazzante, incomprensibile ed estremamente doloroso. Quando tutto inizia è difficile crederlo e soprattutto non si capisce che cosa stia succedendo nella propria famiglia. Tuo figlio improvvisamente comincia a rinchiudersi interi pomeriggi al buio nella propria camera, ad assentarsi da scuola, il ritmo sonno-veglia si altera e fa fatica ad alzarsi al mattino, ritarda il momento dei compiti, ha un calo del rendimento scolastico, diminuiscono fino ad interrompersi i contatti con gli amici”, hanno detto i genitori all’Ufficio scolastico regionale. 

Le prime reazioni da parte dei genitori sono nella maggior parte dei casi di irritazione ed impazienza: “Abbiamo fatto tentativi ripetuti di smuovere quello che ci sembrava un meccanismo inceppato, abbiamo agito interventi risoluti e nelle nostre intenzioni risolutivi con lo scopo di riportare tutto, il prima possibile, alla ‘normalità’. Come conseguenza, i tentativi da parte dei ragazzi di non andare a scuola sono diventati più forti, più energici, spesso con una escalation di resistenze passive ed attive, talora con la comparsa di sintomi fisici anche imponenti. In definitiva le assenze del ragazzo da scuola sono aumentate e molto spesso sono giunte infine al ritiro completo, ritiro proseguito in molti casi per tutta l’estate, senza cambiamenti quindi, nemmeno quando l’impegno scolastico non era richiesto, quando fuori c’era ‘la vita’. In questo processo abbiamo attraversato quasi sempre scontri spesso anche forti e dolorosi, perché il ritiro è stato inizialmente letto da noi genitori come una mancanza di voglia di fare il proprio dovere. Poiché andare a scuola è un ‘obbligo, per un genitore è inconcepibile che un figlio o una figlia possano disattendere ad un dovere così importante. Ma tutto quello che viene intrapreso, risulta inutile”.

Con il passar del tempo, però, i genitori provano e trovano modi più morbidi e seduttivi, per esempio con la la concessione di periodi di riposo: “Tutte azioni che, comunque, non servono se non provvisoriamente. Lo sconcerto sale, non si capisce cosa stia succedendo. E allora dopo avere attraversato tanto dolore, tanti scontri, dentro un tunnel assurdo nel quale non comprendi come abbia fatto tuo figlio ad infilarsi, si cominciano a cercare freneticamente le cause. In questo percorso la nostra identità genitoriale, nella quale avevamo investito nel tempo, viene fortemente minata: tutti sono prodighi di consigli a volte rassicuranti, a volte insistenti e di inviti ad esercitare in maniera più normativa il proprio ruolo genitoriale. Dopo un bel po’, soprattutto grazie al confronto con altri genitori che attraversano la stessa situazione, finalmente il velo che, come genitore, hai avuto per tutto il tempo davanti agli occhi cade e per la prima volta diventi capace di vedere il dolore di tuo figlio e di come nessuno, nemmeno tu, sia stato capace di vederlo e comprenderlo. Il​ ​velo​ ​cade​ ​quando​ ​comprendi​ ​il​ ​reale​ ​significato​ ​del​ ​ritiro:​ ​non​ ​è​ ​che​ ​tuo​ ​figlio o tua figlia​ ​non​ ​voglia​ ​uscire,​ ​la​ ​realtà​ ​è​ ​che​ ​non​ ​può,​ ​non​ ​riesce​ ​più​ ​a​ ​farlo. Non si tratta infatti di capricci. Lui lì fuori sta male, si sente sbagliato, schiacciato dalla paura del giudizio, soprattutto dei suoi pari, non si sente adeguato e sente di non riuscire a trovare il proprio spazio tra i coetanei rispetto ai quali prova un forte senso di vergogna”.

Spesso gli Hikimori sono ragazzi e ragazze intelligenti, bravi a scuola, sensibili, gentili e discreti: “In genere non particolarmente estroversi, soprattutto non ‘popolari’ nel senso attuale del termine, ma attenti a quanto accade e con una discreta profondità e consapevolezza. Questo è quello che le scuole in generale hanno sempre restituito ai genitori prima del ritiro. Certamente, ormai lo abbiamo capito, non sono dei fannulloni, dei viziati, ragazzi troppo poco seguiti in famiglia, né, tanto meno, dei furbi. Nella realtà i ragazzi che si ritirano in casa sono ragazzi e ragazze che come tutti i loro coetanei, con le mille differenze che li contraddistinguono, mantengono il desiderio di far parte di una comunità e desiderano, comunque, essere individui ‘sociali'”.

Che cosa chiedono, allora, i genitori? “Prima di tutto di prestare attenzione e disponibilità nel cercare di comprendere un fenomeno complesso e di collaborare con noi, in un’ottica di prevenzione. Abbiamo bisogno del vostro sguardo attento quando i nostri figli sono a scuola tra i pari. Ci rivolgiamo a voi insegnanti perché oltre a noi genitori siete voi gli adulti di riferimento più importanti di questi ragazzi. Solo​ ​insieme,​ ​collaborando,​ ​possiamo​ ​fare​ ​qualcosa:​ ​possiamo​ ​fare​ ​la​ ​differenza. A volte si tratta di osservare​ segnali impercettibili. Potreste cogliere improvvisi addormentamenti in classe, assenze più frequenti da parte dei ragazzi più timidi, quelli che stanno spesso con lo sguardo basso. Spesso si tratta di ragazzi ‘invisibili’, che non danno fastidio in classe, che non alzano la mano per timore. Vi chiediamo di essere vigili perché gli atti di bulismo, di derisione, di esclusione dai gruppi avvengono spesso sotto gli occhi degli insegnanti. E poi vorremmo condividere con voi alcune strategie operative: parliamo​ ​dei​ ​Bes, bisogni educativi speciali. Già molti dei ragazzi in ritiro sociale si sono avvalsi di questa possibilità, alcuni traendone vantaggio ed arrivando persino alla promozione. Altri, pur tentando un recupero che prevedeva obiettivi minimi, sono stati penalizzati per le assenze. Altri ancora hanno completato il programma attraverso una piattaforma​ ​on​ ​line​, con l’intervento di tutor a domicilio. C’è chi ha portato avanti piani d’istruzione​ ​domiciliare​ con insegnanti inviati dalla scuola. Infine la strada dell’istruzione​ ​parentale​ è stata perseguita da alcuni ragazzi che hanno portato avanti lo studio autonomamente, con il peso enorme di dover affrontare un esame annuale  in tutte le materie, a settembre, davanti ad una schiera di insegnanti, dopo mesi passati chiusi in casa. Certo, tutti quanti vorremmo cercare di riportarli a scuola e alla relazione con i compagni, a ridere con i coetanei, a trovare con essi complicità, ad allenarsi a superare le prove e le frustrazioni. Ebbene, lo vorremmo tanto anche noi, perché noi ci siamo formati in quel modo, perché nonostante la fatica ci siamo divertiti. E siamo cresciuti. Ma questi sono ragazzi che non riescono a vivere bene queste esperienze”.

Insomma, il sogno dei genitori è collaborare con la scuola: “Ci immaginiamo un​ ​team​ ​scolastico​ in grado di cogliere i segnali predittivi di questo fenomeno, un team che ai primi segnali che il ragazzo manifesta si connetta con le famiglie e con le altre istituzioni (Asl, servizi sociali comunali), affinché le famiglie possano agire per tempo e non sentirsi più sole. Lo stesso team potrebbe costituire la commissione che esaminerà coloro che scelgono l’educazione parentale, all’atto dell’esame di idoneità al passaggio alla classe successiva. Questi ragazzi, che non sono solo ‘nostri’ ma della società intera, devono tornare a vivere fuori, nella società, ma potranno farlo solo se tutti gli adulti delle diverse istituzioni e agenzie educative, collaboreranno e saranno in grado di dire loro che ne vale​ ​la​ ​pena”.