“Si sono verificati casi di pediculosi all’interno del plesso. Si invitano i genitori a controllare costantemente il capo dei loro figli”. L’avviso, sul quaderno di mia figlia, è apparso almeno un paio di volte dall’inizio dell’anno scolastico. Ma così come è stato letto, è stato anche dimenticato. In fondo anche alla scuola dell’infanzia veniva affisso di continuo alla porta d’ingresso. E probabilmente, non essendo lei mai incappata nella sgradevole disavventura, nel tempo mi sono assuefatta. E ho continuato a rimuovere in automatico tutte le informazioni sul tema “pidocchi”.
L’altra mattina, però, prima di andare a scuola l’ho sentito pronunciare alcune allarmanti parole: “Mamma, ho prurito in testa”. Vista la rimozione di cui sopra, però, non ho collegato. Peccato che verso le dieci, sul gruppo WhatsApp della classe, una mamma abbia fatto coming out: “Mio figlio li ha presi, controllate le teste dei vostri”. E il mio cervello ha fatto uno più uno. Al lavoro, mentre aspettavo la telefonata della bidella che non è mai arrivata, io e le colleghe abbiamo preso a grattarci ferocemente.
Poi ho chiamato un’amica “esperta di pidocchi” (non me ne voglia) per sapere tutto ma proprio tutto sull’argomento, convinta che agendo d’anticipo avrei scongiurato la giornata di m….. Eh sì, perché la sera prima – strane coincidenze – la scossa di terremoto aveva esagitato i bambini e, per sedarli e farli addormentare, li avevo portati nel lettone. Nella mia testa, dunque, prefiguravo sciami di pidocchi in giro per casa, cuscini contaminati, cappotti da buttare, sciarpe da lasciare sul balcone sigillate in un sacco da riaprire la prossima estate quando, tra l’altro, non serviranno più.
Sono corsa a casa dopo il lavoro e ho iniziato con le lavatrici a sessanta gradi: una, due, tre, quattro, cinque. Nel frattempo è arrivata mia madre in soccorso perché, non so voi, ma io di stendipanni per cinque bucati non ne ho. Dopo aver cambiato i letti, eliminato ogni traccia di lenzuola, asciugamano, pigiama, sono andata a riprendere la ragazza contaminata da scuola. E l’ho vista da lontano, mentre guadagnava il portone dell’uscita al suono della campanella, con le mani in testa.
“Hai ancora prurito?”
“Sì”.
“Fammi vedere”.
Ed eccoli lì, minuscoli e ambigui. Pochi ma buoni. Buoni per catapultarsi in farmacia a spendere sessanta euro tra lozione e shampoo, pettinini e spray per gli indumenti. Per trattare tutta ma proprio tutta la famiglia. E non rischiare di ricominciare da capo dopo qualche giorno.
“Mamma, andiamo in piscina?”, ha detto il piccolo non capendo perché gli avessi piazzato una cuffia in testa dopo avergli cosparso il su chilo buono di capelli con quella roba puzzolente.
Sul gruppo WhatsApp, dopo aver sconfitto (si spera) gli ospiti, ho avvisato le altre mamme. Che hanno continuato a stilare la lista dei figli contaminati, nei giorni successivi.
E adesso? Finito il giro si ricomincia? Nel senso, quando l’ultimo della classe li avrà presi toccherà di nuovo al primo? O possiamo considerarci liberi? Io, nel frattempo, non ho mai smesso di grattarmi.
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