Claudia Francardi (a sinistra) e Irene Sisi (a destra)
Claudia Francardi (a sinistra) e Irene Sisi (a destra)

Per diverso tempo sono state la mamma di Matteo e la vedova di Antonio. Poi, dopo una giornata in spiaggia insieme a parlare finalmente d’altro – di uomini, vestiti, cucina – Irene Sisi e Claudia Francardi sono diventate semplicemente Irene e Claudia. La loro è una storia a dir poco unica e singolare dove la parola perdono è quasi limitata, tanto è diventato stretto il loro rapporto di “sorelle che si sono scelte”. Perché l’associazione che hanno fondato due anni fa, AmiCainoAbele, nasce da una sofferenza che le ha inesorabilmente legate, portate l’una dall’altra e messe dentro un destino comune.

Il figlio di Irene, Matteo Gorello, aveva 19 anni quando, il 25 aprile 2011, dopo essere risultato positivo all’alcol test durante un controllo dei carabinieri al ritorno da un rave party, in provincia di Grosseto, aggredì più volte con pugni e bastoni Antonio Santarelli, che morirà dopo un anno all’ospedale di Imola, e Domenico Marino, che perderà un occhio.

La lettera che Irene scrive a Claudia, alla quale seguirà il primo incontro tra le due donne, risale a sei mesi dopo: “Prima di vederla per la prima volta – ci racconta Irene – in me c’erano la vergogna, l’imbarazzo, la paura di quello che mi sarei sentita dire, la preoccupazioni per le condizioni di Antonio. Sono arrivata all’incontro con il groppo in gola ma la fortuna è stata capirci al volo, entrare subito in empatia. Ci siamo lasciate con un abbraccio e scambiandoci i numeri di telefono”.

Da lì, l’inizio di un percorso di riconciliazione che le due donne hanno voluto tradurre in una missione sociale: “Mettere insieme famiglie delle vittime e famiglie dei rei, aprire uno sportello che si occupi di entrambi questi due pianeti, tenuti sempre separati. Ma tra gli obiettivi dell’associazione c’è anche il ricollocamento lavorativo degli ex detenuti e il sostegno psicologico e legale gratuito a chi finisce in queste situazioni. Perché diciamocelo, parlare di perdono quando non hai i soldi per pagare lo psicoterapeuta o non hai uno stipendio, è difficile”.

Peccato che, nonostante gli apprezzamenti e i plausi, Irene e Claudia si sentano poco considerate a livello istituzionale: “Abbiamo scritto anche al Papa, niente. Purtroppo esistono le associazioni che si occupano delle vittime e quelle che si occupano dei rei: ognuno ha il suo orticello. Noi diciamo che vanno bene i mediatori penali ma chi, come noi, ha dovuto vivere sulla propria pelle la sofferenza, dovrebbe avere maggiore voce in capitolo. Purtroppo la teoria non l’abbiamo studiata sui libri. E quella mia e di Claudia non è un’esperienza, è l’esperienza. Allora che ce ne facciamo dei tanti ‘brave, brave’? Nulla. Torniamo a casa e ci chiediamo: ‘quindi’?“.

A costruire ponti, intanto, Irene e Claudia pensano quotidianamente: “La nostra relazione ha ovviamente, come tutti i rapporti, momenti no: litighiamo, abbiamo vedute diverse su come mandare avanti l’associazione, viviamo momento di sconforto. Ma abbiamo sempre cercato di aspettarci e rispettarci. Il figlio di Claudia e Antonio, Nicolò, che ha 18 anni, non ha ancora voluto conoscere Matteo, che dopo un percorso nella comunità di Don Mazzi, ora è in carcere a Bollate. Con Claudia, invece, ha un bellissimo rapporto, ora un po’ raffreddato dalle sbarre. Io stessa ho dovuto fare un percorso di riconciliazione con mio figlio e avviare quello tra l’altra mia figlia, Chiara, e suo fratello. Le nostre famiglie si conoscono, si sentono, si vedono”.

E quando Matteo, che ha avuto una condanna a vent’anni, uscirà dal carcere? “Quello che mi è successo mi ha insegnato a guardare il presente, perché la vita ti può cambiare in un secondo. Quando Matteo tornerà in libertà, la mia speranza è che possa essere una persona serena ed equilibrata, per dare un senso a tutto questo. E che possa garantire qualcosa di buono a Claudia e a Nicolò“.