Le scuole multiculturali, in molte parti del mondo, sono le più competitive. In Canada, come ha constatato con i suoi occhi, maggiore è la percentuale di alunni stranieri, più l’istituto risulta accattivante e attraente agli occhi dei genitori che devono iscrivere i propri figli. In Italia, invece, succede il contrario. Tendenza che Raul Daoli, sindaco del Comune di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, dal 2004 al 2014, ha provato durante i suoi due mandati a invertire. Un lavoro che ha narrato nel libro “La Padania dell’integrazione” (Emi) e che oggi racconterà al Festival Comunità Educante organizzato a Faenza dalla cooperativa Kaleidos. L’appuntamento è durante l’evento “I Comuni virtuosi: comunità che accolgono, educano, muovono cultura” (Sala delle Associazioni, via Laderchi 3, dalle ore 17 alle ore 20).
Daoli, nella “capitale dell’integrazione”, come è stata definita Novellara, che cosa è successo nel giro di poco tempo?
“Nell’arco di otto-nove anni la presenza degli stranieri è passata dal 2 al 18-20%. Ci siamo ritrovati con 65 nazionalità diverse. La scuola è senz’altro uno dei primi fronti in cui si è registrato il cambiamento. La sfida è stata quella di capire come trasformare il problema in opportunità, di chiamare in causa la pedagogia per lasciare da parte paure e pregiudizi e trarne un vantaggio per tutti”.
Come avete coinvolto le famiglie, gli insegnanti e tutti i soggetti che ruotano intorno alla scuola?
“Con iniziative culturali, con alleanze. Un lavoro non facile ma che ci siamo messi in testa di portare avanti, godendo anche dell’alto livello di accreditamento che l’Amministrazione comunale di Novellara ha storicamente tra i cittadini”.
I figli degli immigrati “rubano” il posto al nido ai bambini italiani, se in classe ci sono troppi stranieri si resta indietro con il programma. Sono alcuni dei luoghi comuni che circolano sul tema. Avete dimostrato il contrario?
“Sul primo tema, abbiamo invece constatato, in un periodo di grande crisi, prima una scarsa propensione delle famiglie straniere a iscrivere i figli alla scuola dell’infanzia, rischiando un ingresso troppo traumatico alle elementari. E poi un drastico calo delle domande anche da parte delle famiglie locali, colpite dalla crisi. Abbiamo provato a utilizzare le sezioni rimaste vuote per creare momenti comuni, con atelier e laboratori, anche legati alla cucina, mettendo insieme italiani e stranieri e gettando le prime basi per la costituzione di una comunità che sa stare insieme a prescindere da lingue e provenienze. Quanto ai programmi ministeriali, molti studi dimostrano come le scuole multiculturali siano le migliori. L’Italia non ha colto un’occasione unica al mondo, quella di avere decine e decine di nazionalità nelle classi, per innovare la pedagogia. Abbiamo l’Onu sui banchi e ci siamo guardati l’ombelico”.
A proposito, cosa ne pensa del tetto del 30% di alunni di cittadinanza non italiana che possono essere presenti, al massimo, nelle classi dell’Emilia-Romagna?
“Credo sia assurdo mettere dei tetti, come se oltre una certa dose, la presenza di stranieri fosse preoccupante, pericolosa, nociva. Non esiste un livello oltre il quale le cose non funzionano più. Tutto dipende da come la scuola lavora”.
Sul fronte dei mediatori culturali, come valuta il fatto che siano affidati alla responsabilità delle associazioni e non inquadrati a livello sistemico?
“Anche qui, l’opportunità persa è grande. La figura del mediatore è fondamentale per creare percorsi personalizzati di affiancamento e tutoraggio all’alunno di origine straniero. Ma tutto è nelle mani della responsabilità individuale, con esperienze disomogenee, molto diverse da territorio a territorio”.
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