1000 giorni, 36 mesi, 3 anni sono quelli che i bambini, i figli delle detenute, passano in carcere accanto alle loro mamme. Bambini che non sono mai stati al parco, che non hanno mai visto il mare, che si addormentano al suono di un click, non quello della luce che si spegne dopo la favola letta da mamma e papà, ma quello delle blindate che sbattono di sera chiudendo le celle, unico segnale che indica il sopraggiungere della notte.

Sono circa 60 i bambini in Italia che vivono in carcere e purtroppo aumenteranno a causa di una legge peggiorativa che prevede la permanenza in carcere fino ai sei anni. Sono 16 i piccoli nel penitenziario romano di Rebibbia, i quali, rispetto agli altri residenti delle case circondariali italiane, godono di una boccata d’aria fresca in più, grazie all’iniziativa “I sabati in libertà” organizzata dall’associazione “A Roma insieme – Leda Colombini”.

“Questi bambini vivono reclusi, – ci racconta Rosella Postorino, scrittrice e volontaria dell’associazione – non hanno nessun contatto con il mondo esterno se non per mezzo di questa iniziativa, che credo sia solo romana”.

L’associazione svolge da più di vent’anni un’attività a sostegno delle madri detenute e dei loro bambini, cercando di rendere la loro vita meno penosa possibile. L’associazione organizza laboratori di Arte-terapia e di Musico-terapia, con l’intento di stimolare la crescita intellettiva ed emozionale di questi bambini e di sostenere il rapporto madre-figlio. Tra le iniziative proposte, anche  “I sabati in libertà”.

“Un pulmino ogni sabato mattina va a prendere i bambini – continua Rosella – e li riporta la sera: gite al mare o in una villa o in qualunque posto possa far conoscere loro la normalità. I bambini detenuti sono esattamente come gli altri bambini, giocano, ridono, piangono, e soprattutto si affidano. Ma non hanno mai fatto un bagno o accarezzato un cane, chiamano le stanze «celle» e giocano a chiudersi a chiave”.

Una giornata finalmente fuori dal carcere e fuori dal suo grigiore, un modo per far sì che il loro sguardo incontri scenari più ampi di quelli delle camerate con le culle, del giardino e della ludoteca, tutti rigorosamente blindati, ai quali sono abituati.

“Il carcere è una struttura chiusa, è difficile entrarci. Quando ho saputo che i bambini ci vivevano con le loro madri, ho deciso che volevo fare qualcosa per loro. Ma è stato difficile, chiamavo la casa circondariale di Rebibbia e nessuno mi dava indicazioni, finché all’ennesima telefonata, nella quale mi è stato anche chiesto ‘perché insiste tanto?’, sono venuta a conoscenza dell’associazione di Leda Colombini”

Rosella non lo sa perché insisteva tanto, forse perché l’interesse per la prigione l’accompagna fin da quel giorno, quando alle domande insistenti della maestra, un suo compagno rispose dicendo, che il giorno prima era mancato al compito in classe, perché era andato in carcere, a trovare suo padre. “Nascere in un quartiere ‘non-bene’ di Reggio Calabria rende l’idea della prigione non una cosa distante ma una possibilità: anche se non ti tocca, pensi che avrebbe potuto”.

Dell’ossessione del carcere e della gabbia, Rosella ne parla nei suoi libri, in particolare, nella sua ultima pubblicazione  “Il corpo docile” edito da Einaudi, che si ispira proprio al suo impegno nel volontariato con i bambini di Rebibbia.

I bambini del carcere, proprio come i protagonisti del romanzo sono quasi tutti di origine Rom. “Alle donne-madri detenute spettano i domiciliari, ma i campi nomadi non sono considerati dei domicili. Inoltre per ottenere le misure alternative alla reclusione non si deve incorrere nella recidiva, mentre queste donne tendono ad avere piccoli ma molteplici reati alle spalle”.

Bimbi che hanno voglia di correre in riva al mare, che spauriti in braccio ai volontari, chiamano “mamma”. Bimbi che imparano a conoscere il mondo attraverso pillole di libertà somministrate il sabato pomeriggio, almeno per quelli più fortunati come gli “ospiti” di Rebibbia. Bimbi che raggiunta l’età definita adeguata per staccarsi dalla loro mamma sono mandati in case-famiglia o rientrano nei campi Rom. Bimbi con una vita già segnata prima di nascere, figli di donne che molto spesso partoriscono tra le sbarre, e che come Milena, la protagonista del libro, una volta fuori, ci mettono una vita, se basta, a cambiare traiettoria.